E’ una legge di natura. Da giovani ci nutriamo di futuro, da grandi ci sosteniamo col passato. In altre parole, più viaggiamo verso la destinazione, più guardiamo alla stazione di partenza.
E credo di aver identificato un periodo cruciale nella vita di un uomo: tra i 35 e i 40 anni. E’ quel periodo che coincide con i primi bilanci importanti, il corpo non è ancora invecchiato ma non è più giovane, si cominciano a pagare gli interessi sugli errori, le rughe non sono solchi ma si affacciano sul viso, l’entusiasmo ha ancora la meglio sugli sgambetti del destino. E’ in questo intervallo di tempo che ci si rende conto – mi muovo su stime personali – di quanto il futuro sia capace di bluffare.
Quand’ero bambino, io il 2010 me lo immaginavo con le auto volanti, i cibi in pillole come gli astronauti, la vista ai raggi X e la lettura del pensiero per tutti. Impazzivo per gli occhiali speciali pubblicizzati su Diabolik e seguivo, anche con una certa inquietudine, le gesta di Massimo Inardi a Rischiatutto.
Oggi le auto non decollano, al contrario dei prezzi della benzina. Il pollo e gli spaghetti hanno ancora la forma di pollo e di spaghetti. Esistono sì apparecchi in grado di spiare sotto i vestiti, ma sono tecnologie utilizzate in contesti poco peccaminosi: più che ai reggiseni puntano alle bombe a mano. Il pensiero è ancora veicolato dalla parola: anziché trasmetterlo, c’è chi si muove per intercettarlo e addomesticarlo.
Ho capito che il vero futuro, cioé quello davvero sorprendente, esiste solo nelle opere dei grandi narratori e nei sogni dei bambini. Il resto sono patacche di politicanti e ciarlatani. Una regola di buon giornalismo consiste nel non fare mai titoli al futuro (“Il premier: ci sarà lavoro per tutti”). Sarebbe utile applicarla anche al nostro vivere di tutti i giorni (“Anche oggi amo mia moglie”). I successi e le gioie vivono di presente e passato.