Smontare e rimontare

Nel divenire della mia vita, che è un modo elegante di definire l’invecchiamento, ho cambiato idea su molte cose e molti temi più o meno importanti.
Dall’amore alla musica degli anni ’80, dall’alimentazione ai social network, dalla sinistra italiana al Festival di Sanremo e via mutando. Capite bene che già questi esempi, seppure generici, potrebbero alimentare almeno un anno di post qui e altrove. Quindi non per soprassedere né per sottrarmi ad alcuna responsabilità (non sono tipo da lanciare il sasso e nascondere la mano, piuttosto ne lancio altri a raffica) vi propongo l’argomento sul quale ho cambiato radicalmente idea nel corso del succitato “divenire”.  
Il lavoro.
Non sono un distratto e detesto le cose fatte distrattamente, persino le cazzate. Quindi ho sempre preso il lavoro, ogni lavoro che ho svolto, con serietà. Il che non significa che abbia raggiunto costantemente risultati eccelsi: una cosa è l’impegno, un’altra sono i risultati e questo è un concetto cruciale. Diceva Primo Levi che “lavorare bene non è solo un dovere, è una salvazione”. Concetto ripreso da Michele Serra sulla sua newsletter “Ok Boomer!” sul Post. “Una salvazione, che parola splendida: sta a ‘salvezza’ come ‘liberazione’ sta a ‘libertà’. Indica un processo, un percorso. Non è uno stato acquisito: è una conquista. Si diventa salvi. Si diventa salvi imparando a montare a regola d’arte una gru, pezzo dopo pezzo. Se lo hai fatto, è perché sei capace di farlo”.
La sua visione è abbastanza romantica. Il lavorare “bene” è un concetto non facilmente applicabile alla moderna ottica sociale dove il “bene” dipende dai risultati e i risultati spesso non dipendono solo da quel lavoratore. Infatti molti mestieri moderni sfruttano talenti altrui, indicizzando opere di altri intelletti, conquistando demeriti, demolendo il sistema meritocratico. Pensate all’influencer milionario che non sa mettere una parola dietro l’altra, o all’artista pagato per offendere il pubblico dei suoi spettacoli, o ancora all’Angela da Mondello di turno.

La mia idea del o sul lavoro è cambiata più volte nel corso degli anni. Da giovane ero folgorato dalla possibilità di fare un mestiere per il quale avevo lottato e non mi interessava quanto mi avrebbero pagato (oggi un’idea del genere sarebbe degna di una shit storm senza appello). Col tempo ho imparato a pesare il valore di un prodotto, ma ci ho messo sempre la tara della passione: in pratica sgobbavo come un forsennato e guadagnavo in modo non adeguato.
A un certo punto ho avuto un’illuminazione: e se la libertà fosse un’integrazione dello stipendio? Ho cominciato a lavorare un po’ meno e a guadagnare di conseguenza (certo, la base di partenza non era poi così confortevole). Lì ho davvero cambiato la mia vita. Perché se vuoi essere libero devi costruirti un’esistenza che te lo consenta, iniziando a fare solide rinunce mica fioretti da quindicenne.
Ho cominciato a dare più valore a precisi impegni e precisi risultati. Il che implica una rarefazione imposta di impegni e soprattutto di risultati, quindi un training costante dell’autostima (meno risultati, più pensieri molesti) e un continuo dialogo con se stessi.
Non è facile abituarsi a giocare e a vincere di meno, credetemi.

Ecco se c’è qualcosa che il divenire della vita ci può insegnare è che l’uomo non si nobilita più necessariamente col lavoro, ma che si può essere soddisfatti anche fuori dal podio, lontani dai riflettori. Ma affascinati da nuove fatiche: quella di parlarci sempre, quella di godere dei nostri passi magari in solitaria, quella di essere liberi nonostante il conto in banca, quella di aver costruito ciò che in un istante possiamo decidere di smontare e rimontare altrove.  

I nostri errori

Una delle correnti più forti della vita è quella che ci porta lontano dalle cose e dalle persone per come le abbiamo costruite, o conosciute (apprezzarle o detestarle è un dettaglio di poco conto, come spiegherò tra poco). Il cambiamento è il motore di quella corrente, come l’elica di un transatlantico che rimescola, trascina, abbandona, trita, trasforma.
Uno degli errori più frequenti in cui ci imbattiamo è quello di addossare agli altri la responsabilità delle mutate condizioni, insomma il fulgore degli “altri tempi” è sempre merito nostro e colpa di chi è rimasto al palo.

Rassegniamoci, non è così.

Perché l’errore di prospettiva – di questo si tratta – dipende sempre da dove piazziamo la nostra telecamera virtuale. Se guardiamo una persona con occhi che stanno, diciamo, a livello 1 (e non è una scala di valutazione) è assai probabile che quando ci sposteremo o saremo spostati a livello 3 quella persona risulterà assai differente. Così è per qualsiasi esperienza, bella o brutta che sia (stata).
La mia prima maratona l’ho corsa a perdifiato senza mai fermarmi con due pacchetti di sigarette al giorno in corpo: ma avevo la telecamera piazzata a livello 30, i miei anni di allora. Oggi vado molto più piano e osservo il mondo da un livello diverso, però i chilometri che – a Dio piacendo – percorrerò quest’estate a piedi saranno la lente che frapporrò tra la mia telecamera e il mondo che mi circonda. E serviranno ad annullare l’errore di prospettiva di cui sopra.

Certo, minchiate ne facciamo. Non è che nel segno dell’armonia dobbiamo dimenticare gli errori commessi o le trappole in cui siamo caduti. Però l’importante è non abboccare all’amo degli “altri tempi” e coltivare serenamente i nostri dubbi e le nostre incertezze.
I nostri errori migliori sono quelli che ci hanno colti vivi. Che ci hanno consentito di correggere il tiro, di chiudere porte, di tuffarci in mare aperto, di imparare a fidarci, di sperimentare nuove alchimie.
C’è sempre tempo per spostare la telecamera, trovare una nuova inquadratura e vivere sereni. Fregandosene della corrente, avversa o favorevole che sia: tanto cambia sempre.