Il gusto per il brutto

Siamo sempre stati circondati da cose belle e cose brutte, al netto delle questioni soggettive per cui magari ciò che a me sembra brutto a un altro sembra bello. Però qui si parla di bello bello e brutto brutto: esiste un’oggettività per cui una cosa fa ribrezzo e un’altra no. Che so, la coprofagia è obiettivamente orribile mentre la sala grande del Teatro Massimo di Palermo (un esempio a caso…) è indiscutibilmente bella. Sono due esempi estremi proprio per cercare di centrare l’argomento.
E l’argomento è il gusto per il brutto.
Un tempo il cosiddetto sentire comune era una specie di livella: difficilmente qualcosa di non bello faceva i numeri di qualcosa di bello. E ciò accadeva nelle arti, nella politica (persino il tremendo fascismo aveva una sua estetica), nei costumi (gli hippies non erano brutti, erano diversi dagli altri di quei tempi), nella vita sociale.
Oggi invece in tv, sui giornali, per strada, nei teatri, in parlamento il brutto fa audience. Ed è triste dirlo, non la fa perché suscita curiosità. La fa perché piace, affascina, attrae.
Ci sono trasmissioni televisive scritte male (non farò nomi, ma basta guardare esempi recentissimi) che comunque fanno ascolti. Ci sono programmi politici scritti coi piedi (la menzogna in politica è un totem del brutto) che fanno grandi proseliti. Ci sono comportamenti sociali riprovevoli che generano un gran numero di emulazioni. Ci sono beceri esempi che assurgono al ruolo di personaggio. E tutto ciò ha un terreno di coltura elettivo.
I social network.
Io i social li uso e non li disprezzo, perché ho imparato a diffidarne. Non tutti hanno presente l’evoluzione sociale dei social (scusate il bisticcio di parole): nati come mezzo per condividere contatti, per unire persone, sono diventati un mezzo di spaccio di contenuti. E quando si passa dall’agenda telefonica al libro di testo i rischi sono enormi. Perché unire le persone è una cosa, diffondere idee è un’altra. Nel primo caso l’attività è puramente meccanica, nel secondo ci vuole un filtro, quello della conoscenza. Insomma una cosa è scorrere l’elenco per contattare qualcuno che ci piace, un’altra è sfogliare un testo scientifico per curare o prevenire una malattia.

È qui che si inserisce il gusto per il brutto. In questo gap tra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere. Il bello è stato creato (o inventato, fate voi) per darci un parametro che è anche un trampolino. Una canzone, un quadro, un libro, un balletto, un panorama, una scultura ci attraggono e ci spingono verso un destino migliore: tutti sogniamo di essere eroi quando leggiamo le avventure di Shackleton (perdonate la fissazione); è difficile non restare ammaliati da uno Schiaccianoci di Pëtr Il’ič Čajkovskij; una messa cantata a Notre-Dame è indiscutibilmente qualcosa di bello. L’avventura è bella come la letteratura, la conoscenza è bella come la pittura, la tolleranza è bella come la musica. Il bello è dappertutto, il brutto ci aspetta al varco.
Il gusto per ciò che è orribile nega l’idea stessa di gusto, e anzi ci deprime senza preavviso.
Non a caso diceva il sommo Oscar Wilde: “Ho dei gusti semplicissimi, mi accontento sempre del meglio.”