Il mullah Dadullah, intervistato da Sky, ha detto che se il governo di Hamid Karzai non tratterà con i talebani e rilascerà due detenuti, Adjamal Nashkband, l’interprete di Daniele Mastrogiacomo, sarà ucciso.
La vicenda è nota, le polemiche sulle trattative per la liberazione del giornalista di Repubblica non si sono ancora spente. Si potrebbe aprire un nuovo fronte di riflessione sull’intervista di Sky: quanto pesa il diritto di cronaca quando quel diritto diventa un’arma di ricatto? E’ giusto mostrare in mondovisione un delinquente tagliagole che pontifica sulla politica internazionale (gli inglesi, Bush, Karzai, l’Italia)? Aprendo al talebano questa immeritata finestra di comunicazione non si rischia di legittimarne un ruolo sociale? Il senso di offesa che mi sono trovato dentro dopo aver visto e ascoltato il mullah Dadullah non ha un’origine né una destinazione politiche: in parole povere non credo che la mia sia un’indignazione di destra o di sinistra.
E’ giusto dare la parola a tutti per spiegare, raccontare, dissentire, denunciare. Ma davanti alla violenza immonda di un tale che si presenta in tv e minaccia di uccidere un essere umano non si devono chiudere gli occhi. Basta spegnere le telecamere.
Categoria: certezze
Uova e colombe
Cerco di fare una cosa utile. Il Codacons ha dato delle indicazioni per riconoscere le uova di cioccolato e le colombe pasquali migliori. Riassumo per voi (se vi fidate).
Uova. “Il cioccolato per essere ottimo dovrebbe contenere, nell’ordine: cacao in polvere e burro di cacao (pasta di cacao), zucchero, latte in polvere, aromatizzanti naturali. Il burro di cacao è l’elemento più importante: verificate quindi a che punto della lista si colloca. Se trovate scritte strane, del tipo, ‘contiene grassi di sostituzione’ abbandonate l’uovo – avverte il Codacons -. Al palato è facilissimo riconoscere il cioccolato puro: si scioglie in bocca e scivola via. La tendenza a sciogliersi è direttamente proporzionale al contenuto di burro di cacao ed inversamente proporzionale al contenuto di zucchero, che spesso viene messo in eccesso per aumentare il peso. L’aspetto è lucido, il profumo aromatico, al tocco sembra freddo e si scioglie facilmente in mano”.
Colomba. “Una colomba di qualità superiore dovrebbe contenere, nell’ordine: farina, zucchero, uova, burro, canditi. In particolare le uova devono essere di categoria A (no all’albume in polvere), il burro, da preferire decisamente alla margarina, deve essere in quantità non inferiore al 16%, mentre i canditi non devono essere meno del 15% (tra 15 e 20%). Il latte è facoltativo. Se c’è, è preferibile che non sia scremato e va decisamente evitato quello in polvere. E i conservanti? Meglio che non ci siano – consiglia il Codacons -. Se si usano materie prime di qualità non c’è bisogno di conservanti per arrivare alla data di scadenza. La certificazione di un ente indipendente che attesta che il prodotto è ogm-free è indice della serietà della ditta. La lievitazione è importante anche per valutare la sofficità. Verificate la crescita del dolce rispetto al pirottino (l’involucro di carta con bordo pieghettato usato come contenitore): la colomba non deve essere piatta. Nell’impasto i buchini prodotti dalla fermentazione non devono essere delle caverne. La crosta non deve essere troppo scura. Il colore dell’impasto deve essere dorato, la glassatura consistente. Per i canditi: più sono grandi e maggiore è la loro qualità.”
Nulla di insipido
Ricevo una mail da Lorenzo Matassa. L’argomento è curioso, merita un post.
Ma sapete quante incredibili varietà nasconde la parola?
C’è il sale di Murray River, tenero color albicocca.
C’è il sale dell’Isola di Molokay, nero come la pece.
C’è il cristallo di Alea, prezioso per il Sushi.
C’è quello di Cervia che si sgranocchia con il cioccolato di Grenada e che rende il dolce più amarostico.
C’è il sale chiamato Diamante del Cashmere, raro salgemma tratto in alta quota himalayana.
C’è il grigio di Guérande, detto caviale del mare, perché contenendo ottanta minerali in un solo granello, trasforma ogni opera culinaria in qualcosa di raro ed insuperabilmente gustoso.
C’è il British di Maldon, che ha scaglie sottilissime a forma di piramide, preferito dalla Regina d’Inghilterra.
C’è quello hawaiano, fiocchi impalpabili di arancio intenso ricordano l’aroma degli atolli battuti dal vento.
C’è il Salty Cup che con peperone, cetriolo e popodorino frullati crea il cocktail famoso in tutto il mondo.
C’è il sale dell’Isola di Agoni, vicino Okinawa, reso celebre dal racconto di Koshin Odo, filtrato dall’acqua attraverso quindicimila rami di bambù durante la luna piena.
C’è il sale Rio Formosa dell’Algarve, setacciato grano dopo grano a mani nude.
C’è il Maras peruviano, raggranellato sulle Ande a 3.000 metri d’altitudine.
Ma se si va ancora più in alto si troverà il Mirror della Bolivia, raccolto a circa 3.700 metri (attenzione, usatelo con accortezza perché ha effetti molto simili alla pianta che, in quelle altitudini, crea l’ebbrezza psicotropa…)
C’è il Fleur de Sel Chardonnay della California che viene affumicato con la legna delle botti del vino.
Ma se essiccato con il legno d’olmo rosso diventa un altro sale che volgarmente è chiamato Pacific Salt.
Il Viking Salt è, invece, essiccato con il pino norvegese.
C’è il Mothya, che non vi dirò da dove viene…
Vi auguro che la vostra vita non sia mai insipida.”
I simboli che servono
C’è un mormorio che cresce dopo la liberazione del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. In sostanza, passata la paura, c’è chi esprime il seguente dubbio: perché per lui si è scesi in piazza, si sono raccolte firme, si è andati alla mobilitazione generale e per altri connazionali in analoghi guai ciò non è accaduto?
E’ un’ antica questione, quella delle vittime di serie A e di serie B. E non credo che sia un fenomeno prettamente italiano. C’entrano la visibilità dei personaggi, il loro essere (anche inconsapevolmente) simboli, la platea di cui la politica necessita, le eterne ingiustizie della vita.
Non c’è assolutamente da lamentarsi se nel nome di un reporter rapito dai talebani, che non sono proprio la Banda Bassotti, si muove una gigantesca macchina di solidarietà. A tutti piacerebbe che lo stesso impegno e la medesima sensibilità comune fossero manifesti per ogni italiano in grave difficoltà (leggasi rapimento, detenzione illegittima, cruenta impossibilità di rimpatrio e via dicendo), ma sarebbe come certificare che tutti gli uomini pesano socialmente alla stessa maniera. Il che, come sappiamo, non è vero. E’ naturale eleggere simboli in un mondo che ha bisogno di simboli per riconoscersi. E’ l’unico modo che ci resta per riempire le piazze nel segno di qualcosa di sensato e utile.
Divieti minuscoli
Marameo!
Ecco, ci siamo capiti.
Se qualcuno vuole restituire il marameo alla multinazionale e\o alla agenzia statale di cui sopra clicchi sui rispettivi ipertesti e segua la strada verso un “about us”, lì troverà qualche email con cui sfogarsi.
Elogio di Pippo
Così ieri pomeriggio, appena rientrato in Italia, mi sono ritrovato – per la prima volta in una ventina d’anni – davanti alla tv per verificare la fondatezza di quell’impressione.
Avevo capito bene, il Festival quest’anno ha fatto il suo mestiere, quello di regalare canzoni italiane, di far discutere dei testi, di raccontarci di piccole polemiche e grandi sogni, di fare spettacolo insomma. E io, dopo il mio fallace vaticinio di due mesi fa, dovevo fare pubblica ammenda.
Detto fatto.
Pippo Baudo è un gran professionista, solido e tenace come solo chi ha radici ben salde sulle assi di un palcoscenico sa essere. E gli si perdona anche la spudorata furbizia di proporsi in diretta come esternatore nudo e puro, apolitico e apartitico. Baudo sa bene che il suo ruolo non è più quello di semplice presentatore. Da condottiero unico dell’ammiraglia della Rai che ha navigato con grande difficoltà nel mare di Sanremo conta più di un segretario di partito: un suo ammiccamento catodico sposta simpatie e voti, un suo starnuto in diretta fa correre al fazzoletto milioni di telespettatori. E’ la legge della popolarità. Il Festival non ha destino senza l’abile manipolazione di Pippo che, come tutti gli eroi, è un misto di coraggio e ruffianeria. Il resto – i Del Nocini, i politicuzzi, i Landolfini, gli Al Banucci – sono fragili pioli di una scala buona per finire in legna da ardere, il prossimo inverno. Se verrà.
In vacanza
La geisha
Come da definizione ho vestito i panni di una “giovane donna giapponese istruita nella musica, nella danza e nell’arte del tè ed addetta a intrattenere gli uomini ospiti di conviti privati o pubblici”. Ora, in questa frase ci sono vari indizi che vi mettono sulla strada del travestimento carnevalesco. Innanzitutto la parola “giovane”, ancor più che “donna”: il trucco fa miracoli, ma le rughe per fortuna non mentono. Passi per “l’istruita nella musica”, ma la danza… Chi mi ha mai visto ballare ha conoscenza diretta dell’astrattismo legnoso, quell’orientamento artistico che accomuna esseri umani e bastoni di scopa. Quanto “all’arte del tè”, la cosa che intingo con maggiore disinvoltura nell’acqua è una compressa di Alka-Seltzer. L’unica verità è che ho intrattenuto “uomini ospiti di convitti privati e pubblici”, e non solo: chiunque (tra maschi, femmine e altro) mi abbia visto per strada, al ristorante, nella calca di una festa mi ha guardato con orrore, fotografato, abbordato, deriso, palpato. Se questo non è intrattenere!
A tarda sera, quando sono tornato a casa, mi sono imbattuto in uno specchio e mi sono trovato davanti un androide mezzo Platinette e mezzo Gene Simmons dei Kiss. Ho ancora nelle orecchie le risate della mia compagna, vera artefice di tutto questo. Il suo travestimento? Da strega naturalmente.
La controfigura di Diliberto
Non sono mai stato tenero con Berlusconi. Del resto non mi piace il suo programma politico, non mi piacciono molti uomini del suo partito e della sua coalizione, non mi piace lui come persona.
Ma non mi fa schifo.
E anche se mi facesse schifo non lo direi, come invece ha fatto ieri il segretario dei Comunisti italiani Oliviero Diliberto.
Coi tempi che corrono, questo linguaggio va bandito dalla vita pubblica: lo scrivo a rischio di apparire bacchettone, ripetitivo o, ancor peggio, forzitalioto. Dire di un leader politico che fa schifo equivale a giudicarlo come persona abietta, ignobile, che merita biasimo e riprovazione. Vuol dire additarlo ed esporlo a giudizi che nulla hanno di politico e di civile. Viviamo in un paese dove la violenza non fa fatica a trovare giustificazione in una qualsiasi parola. Se, come dicono, Diliberto è uomo molto colto allora dovrebbe licenziare la sua controfigura.