La prossima volta

Con un magistrale sforzo di realismo la Camera nazionale della moda ha approvato un manifesto in cui si impegna a non utilizzare più modelle di età inferiore a 16 anni. Nel contempo stabilisce che prima di salire in passerella le lavoratrici dovranno presentare un certificato medico per dimostrare di non soffrire di “disturbi alimentari conclamati”. Sono atti concreti che danno un certificato di cittadinanza agli stilisti: ebbene sì, questi signori adesso vivono tra noi.
Provenienti da un pianeta patinato dove l’altro è solo il cliente (ovvero un binomio portafoglio-taglia), i signori della moda sono atterrati in un mondo in cui c’è chi muore di fame e chi sceglie la morte pur non di non mangiare.
Non voglio fare il polemico ma se ci avessero interpellati prima (me e una discreta quantità di maschi ordinari) avremmo potuto dare il nostro contributo senza dover arrivare all’intervento del ministro Melandri, alla congerie di consultazioni tra grandi firme e al conseguente disorientamento per l’elaborazione di un manifesto scritto in italiano corretto. Già da tempo noi maschi ordinari preferiamo un sedere consistente a uno rattrappito, apprezziamo le forme classiche dove – tanto per intenderci – i fianchi si distinguono dal torace, siamo per la carne e non per il legno.
La prossima volta chiedete.

Consigli per gli acquisti

Come ogni anno…
Questa frase mi ricorda la prima cazziata professionale che mi beccai, allora giovanissimo giornalista, dal mio maestro Salvo Licata. “Perché mai uno si dovrebbe leggere un articolo che comincia così?”.
Ovviamente aveva ragione. E non sono i venti e passa anni trascorsi a rafforzare il convincimento, quanto la spossatezza che inducono certi (molti) riti.
Come ogni anno – che la buonanima di Salvo mi perdoni – è arrivato il tempo dei regali. E si aprono le danze.
L’idea originaria era quella, da televendita post-biscionata, di darvi qualche dritta. Ma, sapete com’è, le intenzioni sono i primi mattoni a franare quando l’imbarazzo si fa edificio.
Proviamo quindi a inventarci un giro di opinioni su cosa non fare, cosa non regalare, cosa evitare di piazzare sotto l’albero.
E’ utile schematizzare.
Regali dovuti. Genitori dispersi, zii d’America in zona testamento, amanti, capicosca, politici corrotti. Mi terrei alla larga da tutto ciò che è stato più o meno larvatamente richiesto, pur mantenendo inalterato il valore pecuniario (per questioni di incolumità personale in certe occasioni). Se una tangente deve essere pagata, tanto vale farlo col proprio gusto. Almeno resta un segno di distinzione, a parte la firma sul blocchetto d’assegni. Esempio: invece della cassetta di bottiglie numerate, un biglietto aereo di sola andata in classe extralusso per un’isola dove (vi hanno riferito fonti attendibili) è ammesso il cannibalismo.
Regali così così. La categoria più difficile perché il range è talmente ampio da correre il rischio di mancare un gol a porta vuota. Coinvolti colleghi, pseudoamici, gente frequentata per circostanza, conoscenti pervicaci nella loro permanenza in tale categoria. Un limbo. Mi asterrei dal regalare tutto ciò che non comporta una reazione del tipo: “Ma vedi questo, che personaggio!”. Vietati libri alla moda, penne, cd, ceste di cibo. Esempio: a un fedifrago orgoglioso regalerei “Luci nella notte” di Simenon.
Regali veri. Amori consistenti e persistenti dislocati in tutta la scala generazionale (mogli, figli, madri, sorelle, fratelli, ecc). Scanserei tutto ciò che non ha almeno un refolo di attinenza col campo seminato insieme. Regalare un maglione è facile, accompagnarlo con un biglietto che indica la situazione in cui potrà essere indossato è utile. La mia compagna mi racconta di regali gastronomici, fatti con le sue sante manine: mi sembra un esempio calzante. Una torta e un messaggio. Una teglia di biscotti e qualche parola.
Parole coi fatti. Il regalo più bello.

La caduta

La morte di Pinochet, seppure annunciata con lo stillicidio di bollettini medici e dichiarazioni di congiunti, sta innescando disordini e tensioni a Santiago. Non sono un esperto di politica estera, ma per riconoscere un dittatore non ci vuole una laurea. Basta seguire ciò che viene trasmesso dalle antenne del mondo, che non sono i tralicci e le parabole di una telecile o un canales cinques, ma i romanzi e le idee degli artisti.

Mi fido dell’odio per Pinochet instillatomi da Luis Sepulveda (leggete questo articolo se vi va) e vado a rileggermi un singolare libretto di Pedro Lemebel, intellettuale dissacrante, attivista del movimento gay cileno, icona di un linguaggio barocco eppure modernissimo e tagliente. Si chiama “Ho paura torero” e ve lo consiglio se volete imparare a odiare qualcuno che se lo merita. Con stile e civiltà.