Ricevo una mail da Lorenzo Matassa. L’argomento è curioso, merita un post.
“Si fa presto a parlare di sale…
Ma sapete quante incredibili varietà nasconde la parola?
C’è il sale di Murray River, tenero color albicocca.
C’è il sale dell’Isola di Molokay, nero come la pece.
C’è il cristallo di Alea, prezioso per il Sushi.
C’è quello di Cervia che si sgranocchia con il cioccolato di Grenada e che rende il dolce più amarostico.
C’è il sale chiamato Diamante del Cashmere, raro salgemma tratto in alta quota himalayana.
C’è il grigio di Guérande, detto caviale del mare, perché contenendo ottanta minerali in un solo granello, trasforma ogni opera culinaria in qualcosa di raro ed insuperabilmente gustoso.
C’è il British di Maldon, che ha scaglie sottilissime a forma di piramide, preferito dalla Regina d’Inghilterra.
C’è quello hawaiano, fiocchi impalpabili di arancio intenso ricordano l’aroma degli atolli battuti dal vento.
C’è il Salty Cup che con peperone, cetriolo e popodorino frullati crea il cocktail famoso in tutto il mondo.
C’è il sale dell’Isola di Agoni, vicino Okinawa, reso celebre dal racconto di Koshin Odo, filtrato dall’acqua attraverso quindicimila rami di bambù durante la luna piena.
C’è il sale Rio Formosa dell’Algarve, setacciato grano dopo grano a mani nude.
C’è il Maras peruviano, raggranellato sulle Ande a 3.000 metri d’altitudine.
Ma se si va ancora più in alto si troverà il Mirror della Bolivia, raccolto a circa 3.700 metri (attenzione, usatelo con accortezza perché ha effetti molto simili alla pianta che, in quelle altitudini, crea l’ebbrezza psicotropa…)
C’è il Fleur de Sel Chardonnay della California che viene affumicato con la legna delle botti del vino.
Ma se essiccato con il legno d’olmo rosso diventa un altro sale che volgarmente è chiamato Pacific Salt.
Il Viking Salt è, invece, essiccato con il pino norvegese.
C’è il Mothya, che non vi dirò da dove viene…
Vi auguro che la vostra vita non sia mai insipida.”
Ma sapete quante incredibili varietà nasconde la parola?
C’è il sale di Murray River, tenero color albicocca.
C’è il sale dell’Isola di Molokay, nero come la pece.
C’è il cristallo di Alea, prezioso per il Sushi.
C’è quello di Cervia che si sgranocchia con il cioccolato di Grenada e che rende il dolce più amarostico.
C’è il sale chiamato Diamante del Cashmere, raro salgemma tratto in alta quota himalayana.
C’è il grigio di Guérande, detto caviale del mare, perché contenendo ottanta minerali in un solo granello, trasforma ogni opera culinaria in qualcosa di raro ed insuperabilmente gustoso.
C’è il British di Maldon, che ha scaglie sottilissime a forma di piramide, preferito dalla Regina d’Inghilterra.
C’è quello hawaiano, fiocchi impalpabili di arancio intenso ricordano l’aroma degli atolli battuti dal vento.
C’è il Salty Cup che con peperone, cetriolo e popodorino frullati crea il cocktail famoso in tutto il mondo.
C’è il sale dell’Isola di Agoni, vicino Okinawa, reso celebre dal racconto di Koshin Odo, filtrato dall’acqua attraverso quindicimila rami di bambù durante la luna piena.
C’è il sale Rio Formosa dell’Algarve, setacciato grano dopo grano a mani nude.
C’è il Maras peruviano, raggranellato sulle Ande a 3.000 metri d’altitudine.
Ma se si va ancora più in alto si troverà il Mirror della Bolivia, raccolto a circa 3.700 metri (attenzione, usatelo con accortezza perché ha effetti molto simili alla pianta che, in quelle altitudini, crea l’ebbrezza psicotropa…)
C’è il Fleur de Sel Chardonnay della California che viene affumicato con la legna delle botti del vino.
Ma se essiccato con il legno d’olmo rosso diventa un altro sale che volgarmente è chiamato Pacific Salt.
Il Viking Salt è, invece, essiccato con il pino norvegese.
C’è il Mothya, che non vi dirò da dove viene…
Vi auguro che la vostra vita non sia mai insipida.”
Mi associo.