Il nobel ai cervelli in fuga

Ho letto la storia di Mario Capecchi, il nuovo nobel per la Medicina, prima di andare a dormire. E sono rimasto sveglio a pensare. Poi ho riacceso il computer, stregato dalla vicenda, crudele e felice al tempo stesso, di quest’uomo.
Nelle vene di Mario Capecchi scorre – come si dice – sangue italiano. Il padre scomparso in Africa, la madre prigioniera dei nazisti a Dachau. Un’infanzia di vagabondaggio nella Bassa Padana, furti per sopravvivere, sofferenza per crescere. Poi il ricovero, a opera di un ignoto benefattore, in un ospedale emiliano e il ricongiungimento a sorpresa con la madre. A otto anni la fuga verso gli Stati Uniti. Il resto è la cronaca di un miracolo di determinazione e meravigliosa curiosità. La scuola senza conoscere una parola di americano, l’università, la laurea, i progressi di una mente inarrestabile.
Ciò che mi ha commosso di questo scienziato è la totale assenza risentimenti: verso la Gestapo che ha deportato la madre, verso il regime italiano che ha spedito suo padre al martirio, verso la nazione di cui è rimasto orfano da giovanissimo, verso quel mondo che lo voleva fango e che se lo è ritrovato oro. Alla scuola delle difficoltà non ci sono esami di riparazione. Capecchi incarna il vero, antico, concetto di sopravvivenza, nel senso di vivere sopra. E’ facile, per noi figli di un’epoca tridimensionale, incensarlo adesso. Davanti a lui si può solo stendere un tappeto di ammirazione e scegliere, per quanto è politicamente possibile, di chiamarlo italiano solo ed esclusivamente nel rispetto di tutti gli emigranti vecchi e nuovi. Il nobel al professore Capecchi deve essere un omaggio a tutti quei cervelli in fuga – penso a Lesandro o ai miei amici Mara e Massimo Marino – da eterne emergenze: i disagi sociali, la disoccupazione, i baroni delle università, l’ingratitudine del nostro apparato economico, l’inerzia e la protervia. Onore a tutti voi.

Il cibo in movimento

Vi siete mai chiesti quanti litri di carburante ci vogliono per spostare sei litri di succo d’arancia dal Sudamerica a casa vostra? O quanti chilometri ha percorso, da morto e stecchito, il tacchino che avete appena infilato in forno? O quando è stato staccato dalla pianta il kiwi che state sbucciando?
Domande inutili, diranno alcuni. Domande obbligatorie, dicono altri. Ad esempio quelli del Food Miles, un movimento anglosassone che sta prendendo piede anche in Italia, il cui obiettivo è ridurre gli spostamenti del cibo per evitare inquinamento ambientale e deterioramento del prodotto alimentare. Se un’idea è semplice rischia sempre di essere sottovalutata. In questo caso, la saggia massaia di provincia si fa una risata: da sempre lei fa la spesa dall’ortolano che ha il terreno coltivato proprio fuori dal paese; mette in tavola solo alimenti di stagione; storce il naso davanti alla “roba in scatola”. Le nostre città invece sono invase da uva imbalsamata, arance sempiterne, zombie di angus, prugne rinsecchite della California, e via elencando.
Il concetto base su cui riflettere è il seguente: più il cibo si sposta, più inquina. Perché il pollo non va dal Trentino a Bagheria con le sue zampette. Se vogliamo c’è un altro concetto ancora più semplice, al limite dell’imbarazzante: il cibo che resta per settimane su un camion invecchia e diventa brutto. Mi piacerebbe che un tg qualunque dedicasse un millesimo dello spazio riservato a questioni di fondamentale importanza come – chessò – l’autunno caldo del Partito Democratico, al Food Miles e ai suoi sani principi. Non tutti andiamo a votare, però tutti andiamo a tavola.
Ps. La risposta alla prima domanda è: un litro di gasolio.

Tommaso Padoa Schioppa

Un ministro che chiama bamboccioni quelli che, ormai prossimi ai quarant’anni, vivono per scelta coi propri genitori non mi scandalizza affatto. E se lo stesso ministro dichiara con studiato candore che pagare le tasse è bello mi scappa un sorriso, e non di scherno.
Siamo un Paese di viziati, brontoloni, moralisti e smemorati. Se qualcuno dice la verità, magari in termini un po’ alla buona, siamo pronti a indignarci. Se qualcun altro invece si traveste in doppio (triplo) petto e ci promette un milione di posti di lavoro, più impunità e meno tasse per tutti, siamo pronti a votarlo. E’ una mia perversione: pur ruminando brontolii come un cammello sahariano, ho più simpatia per la solidarietà fiscale che per i condoni.
I finti giovani che nascondono le responsabilità sotto l’ala delle anziane madri mi stanno antipatici. Pagare le tasse è giusto e, con la giusta dose di masochismo sociale, pagarle in un Paese di milionari evasori può persino essere bello. Sto diventando più buono o più rimbecillito?

Neanche un libro

I primi sospetti ci sono venuti quando abbiamo visto il locale, che assomigliava a una palestra, chiuso a chiave. Poi, dopo l’arrivo degli svogliati “organizzatori” (le virgolette ci vogliono), è arrivata la conferma: la palestra era proprio una palestra, la desolazione era desolazione. Così, io, lo scrittore Giacomo Cacciatore e il regista Floriano Franzetti ci siamo ritrovati a essere protagonisti di una manifestazione che non c’era. L’occasione era quella di una fantomatica Expo Libro di Catania, ospitata nei locali del Cus alla Cittadella universitaria, ideata dalla cooperativa Arcana e organizzata dalla C.A.M. La seconda delle tre giornate era dedicata al tema “Giallo, nero e mistero”. Giallo come lo schermo ad altezza siderale sul quale non sono state proiettate le due docu-fiction in programma, nero come le vetrate luride dell’improvvisata sala da convegni, mistero su come è possibile finanziare una manifestazione del genere. Perché è solo questo che mi preme dire: non so quanto sia costata questa messinscena, ma so che c’è lavoro per avvocati e magistrati. Coi soldi pubblici non si scherza: nel nostro piccolo abbiamo cenato e dormito (anche qui tra variazioni di giallo, nero e mistero) a spese di voi tutti. Tre sponsor tra tutti: Confindustria Sicilia, la Provincia di Catania e l’assessorato ai Beni culturali del Comune di Catania. Non so – né mi interessa – cosa sia accaduto negli altri due giorni di manifestazione. Mi limito a constatare che in questa presunta Expo libro non ho visto neanche un libro. C’erano solo solo sedie vuote, attrezzi ginnici accatastati, un paio di locandine scritte con un pennarello. Se qualcuno può testimoniare sui reading, sulle proiezioni e sui concerti promessi, si faccia avanti. In ogni caso la parte che ci riguardava non è mai esistita. Sponsor pubblici e privati, se lo ritengono opportuno, possono farsi restituire i soldi.

I ventitrè di Cuffaro

Possono giocare una partita di calcio senza avere bisogno di trovare una squadra avversaria. Hanno persino una riserva o, se preferiscono, un arbitro. Sono in ventitrè. Il numero di cromosomi nelle cellule germinali umane. Il numero che nella smorfia napoletana rappresenta lo scemo. Il numero di maglia di Michael Jordan. Il numero di coltellate inferte a Giulio Cesare. Il numero di figlie di Adamo ed Eva. E, da pochi giorni, il numero di addetti stampa del presidente della Regione siciliana Salvatore Cuffaro, appunto.
Il governatore dell’Isola non è certo un pigro, questo va detto. Ha un’attività lavorativa febbrile ed è chiaro che ha bisogno di un’ampia schiera di collaboratori. Se anche questi colleghi lavorassero a turno un solo giorno alla settimana, Cuffaro godrebbe di una forza operativa di 3,28 giornalisti ogni 24 ore.
La coltura estensiva delle assunzioni produce solo frutti bacati, quelli dell’assistenzialismo e del clientelismo. In una regione che ha bisogno di sbracciarsi per essere competitiva non è un bell’esempio, quello del suo presidente. Se io fossi in lui non perderei tempo a spiegare – di certo avrà leggi, codicilli e delibere dalla sua – ma correrei subito ai ripari. Dopo aver detto: scusate, abbiamo sbagliato.

Contro i bavagli all’informazione

Solitamente questo blog non si occupa di appuntamenti di cronaca. Persino le notizie che riguardano il suo autore non interessano all’autore medesimo. Un principio di schizofrenia?
Chissà. Intanto non vi dico a quale manifestazione parteciperò domani, ma vi do un indizio: provate a inseguire sul web il maestro Giacomo Cacciatore
Non sarò in città quindi, ma c’è un appuntamento che voglio segnalarvi, sempre per domani, 6 ottobre. Alle 11,30 all’Auditorium della Rai a Palermo, si svolge un dibattito sulla libertà di informazione. “La mafia torna a rialzare la testa dopo una lunga fase di sommersione e dirige i suoi tentativi di intimidazione agli imprenditori, ai magistrati e ai giornalisti – dice Salvatore Cusimano, direttore della sede Rai siciliana -I recenti fatti, come le minacce ripetute al nostro collega dell’Ansa Lirio Abbate, sono un campanello d’allarme che deve farci riflettere, non solo sui rischi di chi continua ad esporsi illuminando le zone oscure della nostra società, ma anche sulle omissioni e le fragilità di chi invece ha scelto il silenzio o l’autocensura”.
All’incontro oltre a Lirio Abbate, partecipano il presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia Franco Nicastro, il direttore del nuovo Osservatorio sull’informazione di Libera Roberto Morrione, già Direttore di Rainews24, e il presidente della giunta sezionale di Palermo dell’Associazione nazionale magistrati Guido Lo Forte.
Quale migliore occasione per ribadire che la mafia ci ha rotto i coglioni?

Abbordaggio a mezzo stampa

Il sindaco di Roma, nonché annunciato tenutario del nascente Partito Democratico, abborda a mezzo stampa Veronica Lario. E lo fa con tutti gli inglesismi e i luoghi comuni di cui è capace un polistrumentista della politica. Uno dei pregi della signora Lario – si legge nell’intervista al settimanale A – è quello di essere “open minded”. Poi c’è persino la certificazione veltroniana di garanzia: Veronica è una donna “di grande autonomia intellettuale”.
Il sindaco omnidichiarante, in pratica, ci comunica due concetti dirompenti: primo, Veronica parla (e/o pensa) in inglese; secondo, Veronica, nonostante sia femmina e per giunta moglie di Berlusconi, ha un cervello tutto suo.
L’ultima mossa dello stratega diessino prevede insomma l’entrata in gioco di un cavallo di Troia, una trappola, un trucco, un agguato in casa del nemico. Pur di vincere la guerra, si usano tutte le armi, anche i coltelli da cucina. Pur di convincere il popolo urlante, si arruolano personaggi simbolici, paciose signore comprese. Pur di spegnere i tumulti, si riconoscono doti straordinarie a persone ordinarie, si danno patenti di femminilità a chi femmina ci è nata.
Mi fa venire i brividi l’idea di pareggiare i conti delle quote rosa con questi espedienti patinati. Specialmente se si entra in casa altrui e si lascia fuori il buon gusto.

Veleno

Otto del mattino. Squilla il telefono.
– Svegliaaa! Buongiorno! Indovina chi sono!
Ma vaffanculo!
– Non… dormivo. Non… chi sei?
– Dai! Eravamo come fratelli trent’anni fa.
Trent’anni fa… Chissà che cosa ti avrò combinato.
– Dimmi chi sei.
– Sono Piero. Piero del vespino blu, come il tuo.
Ah sì, ti fregai la sella. Altro che fratelli!
– Ah sì… Piero. Come stai?
– Benissimo. E tu? Scrivi sempre? Ti leggo, ti leggo…
Hai imparato poi.
– Mi fa piacere. Tu che fai?
– Sono promotore finanziario, ho due figli. Mi sono sposato sai? Una moglie, una cagna…
Che culo!
– Sono felice per te (sbadiglio).
– Insomma… una ex moglie. Ci siamo lasciati da un anno.
La cagna se n’è andata.
– Mi dispiace (sbadiglio).
– Ci dobbiamo vedere, Gery.
Non ci penso nemmeno.
– Certo. Allora ci sentiamo…
– Sì, ma ti volevo dire una cosa.
Ti manca un quadrupede.
– Ti manca tua moglie.
– No! La mia nuova fidanzata… lei scrive, insomma vuole scrivere, sa scrivere.
Sugli assegni?
– Giornalista?
– No, estetista. Ha una bella attività.
Parallela immagino.
– Complimenti! E io…?
– Tu potresti aiutarla coi giornali, i libri…
I freni del vespino ti dovevo fregare.
– Non è facile: ci vuole passione, sacrificio. Ci sono pochi sbocchi. Ho qualche casino anche io.
– Ma figurati, Geryssimo! Ti faccio contattare, dai.
Non ti rischiare.
– Ma non per telefono, fammi scrivere via e-mail…
– Ok, così vedi come scrive, fantastico!
Sì sì.
– Segnati l’indirizzo del mio blog, lì trovi come contattarmi.
– Grazie, sei un amico.
No.
– Ciao Piero.

Il tressette di Bossi

Nel bar che frequentavo da ragazzo c’era un anziano, quasi sempre ubriaco, che borbottava tutta la giornata. A sera si alzava e, prima di tornarsene a casa, lanciava un anatema alcolico a tema libero: politica, sport, gioventù, parenti, eccetera.
Ho ripensato a quel vecchio quando ho letto le parole di Bossi sulla “lotta di liberazione del Nord” e sui “dieci milioni di padani disposti al sacrificio”. Il leader del Carroccio è un nostro cliente affezionato nel settore “cannonate di stupidaggini”. Prima o poi qualcuno dei suoi alleati dovrebbe parlargli: “Caro Umberto, tu sei bravino. Però adesso smettila con Pontida, i parlamenti alternativi e soprattutto con i soldatini verdi. Il prossimo fine settimana andiamo assieme ai giardinetti e ci facciamo un tressette”.
Invece, più che consolarlo e curarlo come si fa con un pugile suonato, lo giustificano: “Usa parole colorite, ma ha un grande senso di responsabilità”.
Il cameriere del bar che frequentavo da giovane, dopo che l’anziano ubriacone si era alzato, ripuliva il tavolo, si faceva una risata e chiudeva bottega.
Oggi mi basterebbe una risata.

Mercoledì a Palermo

Comunicazione di servizio. Dopo il dibattito sul network cittadino Wi-fi che si è sviluppato su questo blog nei giorni scorsi, il presidente dell’Ars Gianfranco Micciche ha comunicato i costi dell’operazione: 10.000 euro circa per l’infrastruttura, più un canone annuo di 3.000 euro.
Ma soprattutto ha annunciato che il servizio sarà attivo da mercoledì 3 ottobre a Palermo, in piazza Magione.
Ci vediamo lì a mezzogiorno, con computer, telecamere e macchine fotografiche.