Lo sfogo di una editor

Affrontiamo una questione seria, la questione linguistica. Non bisogna avere una laurea per parlare e scrivere in modo corretto. Esprimersi in un italiano accettabile è segno di civiltà, di amor proprio, di buona creanza. Le coloriture dialettali, le licenze e le invenzioni sono belle e divertenti se spontanee o se ben orchestrate. Mi sembra utile pubblicare lo sfogo di una illustre editor.

Caro Gery,
ti sottopongo una questione per proporti, se e quando ti andrà, di affrontarla nel tuo blog. Dato che, come sai, lavoro per una casa editrice e mi occupo (almeno nelle intenzioni) di buona scrittura, non posso più sopportare di sentire utilizzare sempre più spesso l’avverbio “dove” – che, come tutti dovremmo sapere, significa “in quale luogo” – a sproposito in qualsiasi tipo di frase. Accade in tv, ma anche in giro. Qualche esempio: “Quello è un uomo dove ci si può fidare”; “giugno è stato un mese dove mi sono divertito molto”; “le tre del pomeriggio è un orario dove sono abbastanza libero”; “il pomodoro è un ortaggio dove lo puoi cucinare come vuoi”. E via bestemmiando. Non uso a caso il verbo bestemmiare. Certe costruzioni ardite (giusto per non dire bestiali) mi sembrano proprio un insulto alla lingua italiana, orale e scritta (sì, perché c’è anche chi queste cose le scrive). Non mi risulta che un uomo, il mese di giugno, le tre del pomeriggio o il pomodoro siano dei luoghi. Quel “dove”, allora, che ci sta a fare? Immagino che il disastro sia partito dalla tv, visto che proprio negli studi televisivi questo benedetto “dove” si usa nella maniera più funambolica e scorretta. Di certo so soltanto che – facci caso – ha cancellato ogni “che”, “in cui”, “nel quale”, “con la quale”, e via dicendo. La lingua, si sa, cambia e, cambiando, a volte cresce, si adegua alla realtà, talvolta diventa più funzionale. Ma se è questa del “dove” a tutto spiano la presunta evoluzione più recente, io voglio senz’altro combatterla.

Raffaella Catalano

Governo spa

Mettiamo che uno decida di fare una società. Come se li sceglie i soci? Magari li conosce e si fida quindi il problema non esiste. Oppure confida nelle capacità imprenditoriali o nelle conoscenze specifiche dei soggetti. Inoltre uno guarda l’aspetto umano delle persone: se sono coerenti, oneste, equilibrate, geniali. Poi pensa anche al patrimonio e a quanto i soci possono mettere nell’affare, se sono solidi economicamente.
Il governo di un Paese è come una società. Con quali requisiti Prodi e i suoi accoliti hanno scelto uno come Mastella? Si (lo) conoscevano già. Avevano cognizione diretta delle sue capacità. Si erano imbattuti più volte, nel corso di svariate legislature, nelle sue qualità umane. Eppure lo hanno preso come socio, è il caso di dire, di maggioranza.
Si sono lasciati sedurre dal suo patrimonio (di voti). Ora non resta che andarsi a rifugiare dal giudice fallimentare.
Prodi si dice fiducioso. Molti di noi no.

Un pizzino

Ricevo un biglietto, quasi un pizzino.

Gentile dottor Palazzotto,
di questi ultimi tempi non sono stato molto bene che mi sono operato alla tiroide. Che macello dietro la porta dell’ospedale.. almeno 50 cristiani con i mitra spianati? E dove dovevo andare con la flebo attaccata? Per non parlare del catetere che proprio impedisce ogni movimento.
A uno di questi carabinieri ho pregato di scriverci queste quattro parole che spero le risulteranno chiare (questa frase l’ho aggiunta io, il carabiniere, perché non è che sono molto pratico con l’italiano).
Comunque io non le scrivo per questo ma per sottoporle una vicenda che mi sta facendo saltare i nervi. Lei lo sa quanti libri hanno scritto su di me? Ma lei lo sa che in poco più di un anno dalla mia cattura (su cui stendo un velo pietoso perché sono momenti molto tristi) tutti e dico tutti, tranne forse lei e altri due tre scrittori e giornalisti di Palermo, hanno scritto solo su di me?
Hanno detto di tutto. Sui pizzini persino le barzellette c’hanno fatto. Ognuno ha una storia da raccontare sulla stessa cosa. E Provenzano di qua, e Provenzano di là. Il fatto è che ci hanno guadagnato tutti. E a me, che sono vero il protagonista, niente. Manco un centesimo. Dico io, è giusto questo? E’ giusto che tutte le case editrici pubblicano cose che sono tutte uguali uguali?
Io dico, e va bene un libro, perché è giusto che tutti si ricordano di un uomo come a me. Va bene due, va bene quattro, cinque, tiè. Ma quanti ce ne sono in questo momento in commercio?
E lei come mai non l’ha scritto??????????????
Ma poi, tolti gli altri giornalisti che si leggono i libri degli amici, cu minchia si leggi ‘sti libri (scusi dottor Palazzzotto ma proprio questa parola, minchia, lui ha voluto mettercela – il carabiniere).
Lo ringrazio per l’attenzione e mi raccomando, se sente qualcuno che deve scrivere un libro su di me, ce lo dica lei: e bastaaa!

Provenzano Bernardo

Il mestiere degli scrittori

C’era uno splendido editoriale ieri sul Corriere della sera, firmato da Claudio Magris (se ve lo siete persi, lo trovate qui). Il tema è quello del ruolo degli scrittori, del valore della letteratura nel destino degli uomini. Da più parti e in varie epoche si è invocata, temuta o combattuta una politicizzazione dell’arte. Da anni, specie nei dibattiti sul cosiddetto romanzo sociale, si chiedono ai narratori strumenti e modi per risolvere i misteri del nostro tempo. Spesso gli si imputa di frequentare un’ideologia piuttosto che un’altra. Ancor più spesso di non sposarne una. Una variante più perniciosa di polemisti addirittura si spinge ad accusare una classe (intesa in senso anagrafico) di scrittori di tradire le proprie origini geografiche e culturali, di debordare rispetto all’orticello nel quale sono nati e cresciuti. E via criticando.
La statura intellettuale di Claudio Magris è tale da togliermi ogni possibilità di manovra nell’adoperarmi per dargli ragione, applaudire e sorridere quasi commosso. Perché chi vive di scrittura sa quanto sia difficile la scelta di questo non mestiere che riempie e svuota al tempo stesso. Lo scrittore non è una persona giudiziosa che pianifica, risparmia, investe. No, è un dannato nato per la sua dannazione che non sa fare altro, e se lo sa fare non gliene frega niente. Vive per le sue storie, che risultino belle o no, che siano pubblicate o cestinate. Si sveglia nel cuore della notte con un’idea in testa e corre ad appuntarsela prima che svanisca a causa della piena coscienza. E’ talmente abituato ai fallimenti che quando inanella qualche successo si chiede dove stia il trucco. Presuntuoso per quanto sia, si sente nudo davanti ai suoi personaggi, che sono la vera incarnazione del suo paradosso: un creatore condizionato dalle vite riflesse che lui stesso ha generato.
Gli scrittori, famosi e sconosciuti, conclamati e in pectore, hanno il compito di inventare un mondo sempre nuovo, pagina dopo pagina. Molti lo fanno gratis, altri lo farebbero gratis. Se non sognano nuove storie, sognano che qualcuno li legga. Invecchiano così, e non chiedetegli altro.

Cose strane


Una roba domenicale. Rilassiamoci un po’.

Il Papa e lo Stato

Facendo leva su un argomento non da poco, la “salvaguardia del creato”, il Papa scende (torna) in campo contro le minacce alla «vita umana» e alla «famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna». E precisa di non parlare in difesa solo dei principi cattolici, ma della gamma completa dei valori umani.
La Cassazione ha quindi qualcosa di disumano quando decide di riaprire il caso di Eluana.
Le coppie che convivono fuori dal matrimonio sono da mettere al rogo.
I gay… non ne parliamo.
Un Papa che vuole farsi Stato, laddove nemmeno lo Stato è Stato fino all’estremo, potrebbe scegliere una via più consona e dire: in questo mondo ci sono molte cose che non vanno, la mia soluzione è questa. Invece dice: in questo mondo ci sono molte cose che non vanno perché non fate come dico io.
Se persino dinanzi a un problema complesso come il precariato il Pontefice sembra pronto alle scomuniche, sarebbe utile che prima di scagliare il primo fulmine ci dicesse come migliorare la Finanziaria.
E l’Ici? Ah, di quello è meglio parlare in confessionale.

La briscola del Nobel

I premi non sono tutto. I pubblici riconoscimenti non sono un certificato di garanzia. Il fatto che uno abbia vinto il Nobel non esclude che possa sparare delle cazzate atomiche. Se il professore Watson, lo scopritore della struttura del Dna, pensa che i neri siano meno intelligenti dei bianchi non bisogna scandalizzarsi troppo: il signore in questione è anziano, ne ha già sputate altre su omosessuali e libido razziale.
Ha fatto la sua bella scoperta, Mr Watson, negli anni Sessanta. E forse ha pure avuto un certo culo. Ora si goda la pensione. Qualcuno lo tenga lontano da microfoni e telecamere. A una certa età, meglio imparare a giocare a briscola.

Carcere durissimo

Il 41 bis come una tortura? Un giudice di Los Angeles ha negato all’Italia l’estradizione di un membro della cosca dei Gambino, sostenendo che il regime di detenzione previsto dall’articolo 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario al quale il mafioso sarebbe destinato equivale a una forma di tortura e viola la convenzione dell’Onu.
L’interpretazione non è nuova, già da tempo in Italia una corrente giuridica guarda storto il cosiddetto “carcere duro”. Certo, non si può ribattere a queste critiche negando l’essenza del problema: il 41 bis è un provvedimento estremo al quale si è dovuti ricorrere per fronteggiare una situazione estrema. In quale altro paese moderno i carcerati potevano avere contatti disinvolti con l’esterno, al punto di impartire ordini sui traffici del clan o di commissionare omicidi? In quale altra nazione all’avanguardia era consentito ai detenuti di poter importare stili e vizi di vita libera dietro le sbarre?
La struttura mentale di un mafioso conclamato – cioè nato, cresciuto, invecchiato nel fango di Cosa Nostra – non è facilmente scalfibile. Il carcere come luogo di redenzione e di recupero va bene per chi non ha simili incrostazioni direi quasi congenite. Prendete uno come Provenzano: capo della più grande organizzazione criminale del mondo, sanguinario dalla faccia di mite contadino, imprendibile per 40 anni pur rimanendo a un tiro di schioppo da Palermo… Uno che ha già conosciuto il 41 bis quand’era libero, vivendo in un fetido casolare, con minimi collegamenti con l’esterno. Come si fa a sterilizzare la sua capacità di comunicazione monosillabica ora che è in cella? Come si può impedire a un criminale sanguinario come Totò Riina di esercitare il suo potere sugli altri detenuti (che sono a loro volta cinghie di trasmissione di ordini)?
Con un modo semplice e, lo ammetto, discutibile: isolandoli in modo ferreo.
I mafiosi non sono prigionieri di guerra, sono sanguinari che hanno sgozzato, strangolato, incaprettato e sciolto bambini nell’acido senza neanche un’aberrante “ragione di stato” dalla loro parte. Non si sono ritrovati a dover difendere un ideale o un pezzo di terra, hanno attaccato chi aveva ideali e pezzi di terra. Per spegnere i primi e impadronirsi dei secondi. Non sono neanche, come qualcuno li ha definiti, i ”nuovi barbari” perché, non conoscendo la storia, non sanno neanche di cosa dovrebbero rappresentare il rinnovamento.
C’è una frase che non si scrive in nessun giornale, ma che molte persone oneste, di destra o di sinistra, vittime di mafia o no, colte o ignoranti, siciliane o lombarde, hanno sulla punta della lingua.
La frase è questa: i mafiosi devono marcire in galera.
Con le regole imposte dal 41 bis.

Quelli che vanno a votare

Alle primarie per il Partito democratico una fila di oltre tre milioni di persone. Il risultato è eccezionale, se si tiene conto che la catapulta che ha scaraventato ogni singolo individuo fuori di casa nella santa domenica è puramente politica. Perché, non dimentichiamolo, questa era una consultazione puramente politica. Non c’era il parente da mandare ad amministrare, o il consigliori da promuovere, e nemmeno l’amico degli amici da ringraziare o da ingraziarsi. Qui c’era un meccanismo, anche desueto se vogliamo, per scegliere, designare. Fuori dalla convenienza di quartiere o di cosca.
Nessun trionfalismo però.
Un Paese che assiste al mobilitarsi di tante persone per scegliere un leader di partito deve prendere atto di qualcosa (che mi sorprende): la voglia di partecipare. La politica distante, quella che per luogo comune si chiama “del Palazzo”, non può ignorare la sete di cose fatte che l’elettorato manifesta. Siamo una nazione abituata a guardare con distacco le promesse dei nostri stessi rappresentanti. Abbiamo un sistema elettorale che fa del paradosso un’antipatica regola, consentendo al vincitore il brivido della sconfitta. I programmi politici esistono solo se si chiamano “contratti” e se vengono siglati in diretta televisiva. Non ci indigniamo più di tanto se una coalizione per la quale abbiamo votato si spacca e decide di prendere una direzione zigzagante, che porta lontano da dove si era stabilito. Assistiamo a una frammentazione di sigle (e di contributi economici) insopportabile, con partiti che diventano ago della bilancia pur essendo composti dai parenti intimi di Pappagone.
Tutte quelle persone che si sono messe in coda per eleggere gli organi di una coalizione (sembra ancora) virtuale meritano rispetto e impegno, di maggioranza e opposizione. Perché sono gli ultimi esemplari di una razza che si sta estinguendo: quella che ancora va a votare.

Coraggio

I momenti migliori della nostra vita, secondo me, sono quelli in cui non sappiamo che fare. E in cui ci illudiamo che serva solo coraggio.
Non ci vuole coraggio per pensare che i vizi non sono importanti.
Non ci vuole coraggio per dire: “Cambio strada”.
Ci vuole coraggio per mollare gli ormeggi quando le previsioni annunciano tempesta.
Ci vuole coraggio per raccontarsi a chi già ti conosce.
Non ci vuole coraggio per dire: “Io dico quello che penso”.
Non ci vuole coraggio per cambiare partito politico.
Ci vuole coraggio per guardare la propria patente e non pensare a quando ti sei fatto quella foto.
Ci vuole coraggio per lasciare il mondo con un sorriso.
Non ci vuole coraggio per governare col pugno di ferro.
Non ci vuole coraggio per dimenticare presto.
Ci vuole coraggio per fare l’elenco delle promesse non mantenute.
Ci vuole coraggio per avere dubbi.
Non ci vuole coraggio per decidere cosa fare, quando giunge il momento.
Non ci vuole coraggio per mandare a fare in culo tutto e ricominciare. Quello è davvero divertente.