C’è questa canzone che ogni anno in questi giorni riprende vita. La canzone è September degli Earth Wind & Fire e risale al 1978. Pensate, non ebbe neanche un album tutto suo dal momento che, assieme al rifacimento (peraltro fantastico) di Got to Get You into My Life dei Beatles, era inclusa in un album di successi già pubblicati. September è un inno alla dance di quegli anni in cui tutto ci sembrava spensierato. Ballavamo e cantavamo, addentavamo la nostra adolescenza senza curarci del mondo che intorno a noi macinava le stesse tragedie di sempre – l’omicidio Moro e il disastro aereo di Punta Raisi, solo per restare in Italia – e che, nonostante la lente deformante dei social di oggi, non era troppo diverso da quello in cui galleggiamo oggi. Le cose accadono, sono sempre accadute.
Comunque è dell’effetto September che voglio dire.
C’era questo sottile cinguettio di chitarre, il coro gioioso di femmine e falsetti, la sbornia di fiati. E poi c’era lui, Maurice White. Di una grandezza per noi incommensurabile, allora. Una grandezza di quelle di cui uno si accorge quando viene a mancare. Accade così con certi miti viventi: gli affibbiamo un ruolo talmente totalizzante che li mettiamo fuori dal tempo, dall’ordinarietà. E, ascoltando questa canzone, come mai vi potrebbe venire in mente il concetto di morte? È già accaduto con molti nostri punti di riferimento e accadrà ancora perché, come sappiamo, la vita è una infinita malattia mortale. L’unico antidoto – e lo dico dall’alto dei miei tot anni – è ballare, cantare e affidarsi a quelle quattro note incatenate che sopravvivono alle maree del mondo tendendoci una mano, come si fa coi naufraghi: stai tranquillo, ti tiro su io, nessun’onda, neanche quella sperimentata dal capitano Shackleton, potrà mai fermare la musica.
Vivi, sopravvivi. Balla.