L’articolo pubblicato su la Repubblica.
Che allo Zen una processione religiosa faccia l’inchino non davanti alla casa di un boss ma davanti alla caserma dei carabinieri è un fatto, è l’apertura di un sentiero alternativo rispetto alla strada battuta sinora. E che ogni forma di trionfalismo dovrebbe essere vietata per decreto è un punto di partenza imprescindibile nel cercare di ragionare su un prototipo di coscienza civile collettiva. Però qualcosa è accaduto nel quartiere dormitorio palermitano, anche se considerando l’esiguo numero di partecipanti al corteo si può tranquillamente parafrasare Neil Armstrong: un piccolo inchino per l’uomo, un discreto balzo per la comunità.
Il vero dibattito è adesso sul contesto in cui questo evento si è verificato e sulla maniera di narrarlo e/o interpretarlo. Esistono due scuole di pensiero, il cui contrasto è ancora più evidente dopo il successo del nuovo film di Franco Maresco, “La mafia non è più quella di una volta”. La crudezza dello Zen – che è la cristallizzazione della crudezza palermitana per impatto metaforico e valore simbolico – va esposta senza altri filtri che non siano quelli del linguaggio cinematografico, che è comunque un elemento di finzione, oppure esiste una narrazione che può descrivere il lato buio della luna senza per forza oscurarla tutta?
La partita sul rilancio della credibilità di una città che si specchia nel suo quartiere simbolo per degrado e divieto di speranza, si gioca non solo sui fatti ma anche su come incatenarli logicamente. Palermo ha uno strabismo narrativo di se stessa che ha pochi termini di confronto in tutto il mondo. Una visione laica dell’apparente miracolo è l’unico modo per smetterla di scolpire il pregiudizio sulla roccia di confine tra città-bene e città in abbandono.