Ci voleva l’incidente, anzi la catena di incidenti, di Capodanno per riaprire l’antica ferita dell’inadeguatezza della nostra televisione pubblica. Ferità in realtà mai cicatrizzata.
Il problema della Rai è lo stesso che si può riscontrare in molti enti pubblici e deriva da un pericoloso cocktail di deresponsabilizzazione e carenza di controlli. Non è una questione di professionalità – alla Rai ci sono molti professionisti in gamba e lo dico per esperienza personale – ma di volontà. C’è un detto siciliano che raffigura bene la situazione, “U’ cane unn’è mio” (il cane non è mio), per spiegare in questo caso l’ostentato distacco del lavoratore dal prodotto del suo lavoro. Per anni, lo sappiamo, la Rai è stata la tomba della meritocrazia, con assunzioni e promozioni schedulate in base alle tessere di partito. Oggi qualcosa è cambiato (ho detto qualcosa, eh!), ma resta l’incrostazione di un management non all’altezza di una grande televisione pubblica. Basti dare un’occhiata ai palinsesti, infarciti di repliche e replicuzze (specie d’estate quando il canone non prevede tre mesi di vacanza), ai buchi inauditi in materia sportiva, alla progressiva perdita di terreno nell’intrattenimento nei confronti delle altre reti (con l’eccezione di Montalbano che macinerebbe ascolti anche se lo proiettassero alla rovescia), alla qualità dell’informazione regionale, alla vetustà della tecnologia applicata allo streaming nel web.
Insomma alla Rai manca il concetto basilare di azienda: se i miei clienti mi pagano più di quanto pagano gli altri, devo fornire un servizio migliore degli altri.