Io non so se la “trattativa Stato-mafia” ci sia stata o no. So che mi devo affidare a un metro comune (cioè che sia uguale per tutti) per misurare l’attendibilità di una tesi. E ora che Calogero Mannino è stato assolto non mi piace celebrarne le doti di statista (che non gli riconosco) così come non mi piace gridare al complotto anti-antimafia (dato il pm in questione era Nino Di Matteo). La verità è che in questa inchiesta sono venute a collidere le forme più virulente di populismo: da un lato il partito dei partiti che vedono giudici politicizzati dovunque, soprattutto quando si esaminano le fedine penali dei loro iscritti; dall’altro le truppe degli squadristi antimafia che ritengono punciutu chiunque non la pensi come loro.
Ecco, se un risultato evidente potesse emergere da questa sentenza – che a dire il vero dà una mazzata a tutta l’architettura dell’inchiesta sulla (fantomatica o meno) Trattativa – dovrebbe ravvisarsi nell’eliminazione di queste fazioni, poiché nelle aule giudiziarie si dovrebbe tifare tutti per la verità processuale, qualunque essa sia. Sarebbe ora che ci decidessimo a togliere i sentimenti dai processi, che è cosa facile a dirsi ma…
Ad esempio, io non ho alcuna simpatia per Mannino, ma ho imparato a non indignarmi, nemmeno involontariamente, quando lo assolvono. Un tempo non mi sarei comportato così, ma ero giovane e credevo che quando un pm vinceva in aula, vincevo pure io. Solo in seguito – dopo l’era Carnevale, per inciso – ho capito che non dovevo parteggiare per qualcuno, ma per qualcosa: giustizia.
Sono ben cosciente che in questi frangenti quel che si vuole leggere è qualcosa di dirompente, di risolutivo, di provocatorio (oddio, i provocatori a tempo indeterminato!). “Mannino contro Di Matteo”, è la sintesi infausta che animerà i commenti dei prossimi giorni. Oppure “l’antimafia è morta, evviva l’antimafia”.
Sto a guardare, in disparte.