Io me lo ricordo il giorno in cui ho scoperto che Babbo Natale non esiste. Ero già grandicello, avrò avuto sei-sette anni: mai stato troppo perspicace, lo ammetto. Ma è anche vero che le leggende mi affascinano a tal punto da lasciarle scorrere dentro di me: mi piace cullarmi nelle storie che qualcuno, chissà chi, ha inventato senza un perché.
Era la notte del 24 dicembre e con la mia famiglia eravamo tornati a casa dopo un’estenuante cena dai parenti. Io ero tutto eccitato perché sapevo che a casa nostra, con impeccabile precisione (i miei in questo sono sempre stati eccezionali), avrei trovato il mio regalo, quello che avevo chiesto con apposita letterina a Gesù Bambino (io mi rivolgevo direttamente al principale, non mi perdevo nei meandri della burocrazia di renne, camini e barbe fluenti). Invece quando corsi sotto l’albero e non trovai niente, mio padre mi rassicurò annunciando che quell’anno, solo quell’anno, per motivi eccezionali, Babbo Natale sarebbe arrivato la mattina seguente. I motivi eccezionali – avrei scoperto dopo con emozione pari alla perdita di una verginità – erano i postumi del pasto pantagruelico.
Si andò tutti a letto.
Passai la notte sveglio, ma non per l’attesa dei regali. Ero emozionato e incuriosito dal fatto che Babbo Natale sarebbe arrivato a casa mia mentre io dormivo. E io volevo vederlo. Pensai di appostarmi nel soggiorno, magari nascosto sotto un mobile. Però ero anche un po’ spaventato. Mi chiedevo: e se magari lui fosse timido e nel vedermi si incazzasse? E se si portasse via il mio regalo?
No, non potevo rischiare.
Arrivò l’alba e scambiai un bagliore del sole che filtrava da sotto la porta per una luce miracolosa, un riflesso della scia prodotta, chessò, dalla slitta. Fu un momento di svolta, di quelli che ricorderò per sempre: presi il coraggio a due mani e decisi di rischiare, uscii dal letto e aprii lentamente la porta della mia cameretta.
Io Babbo Natale dovevo vederlo.
Credetemi, ricordo ancora il mio cuore fuori giri dall’emozione. A piedi nudi mi feci strada verso il soggiorno. Sentii rumori… sì erano proprio i rumori dei pacchi che venivano spostati sotto l’albero: c’era una delle campanelline che mia madre appendeva tra gli addobbi che tintinnava. Ero eccitatissimo e avevo paura. Paura di far paura a Babbo Natale. Mi accucciai sul tappeto prima di gettare un occhio nella stanza cruciale.
Poi lo vidi. Era di spalle.
Mio padre carponi, coi pantaloni del pigiama impigliati a una sedia, sudava per montare l’organo Bontempi che avevo insistentemente chiesto a Gesù Bambino.
Tornai a letto senza dire nulla, felice per il regalo che di lì a poco avrei avuto tra le mani. E finalmente mi addormentai.
Ancora oggi mi piace pensare di aver avuto, grazie all’affetto dei miei genitori, il privilegio di credere a Babbo Natale sino a quell’età. Perché l’importante non è emanciparsi dalle favole, ma al contrario coltivarle sempre dentro di noi. Le migliori persone che conosco sono quelle che si lasciano incantare da un racconto e non dalla cronaca, quelle che si entusiasmano più per un guizzo di fantasia che per una pagina di giornale.
Forse quest’anno una letterina a Gesù Bambino gliela scrivo.
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