Il mio amico, collega e blogger Giovanni Villino mi porta a conoscenza di questa lettera. Credo che sia giusto darle il massimo della visibilità. Per stabilire come incazzarci al meglio rimando agli eventuali commenti.
Palermo,16/04/2007
Mi chiamo Claudia P. e da anni presto la mia opera lavorativa nel settore del commercio.
Il mio curriculum vanta di un’esperienza decennale alle dipendenze delle più grandi aziende palermitane del settore commercio; nel Dicembre 2005 mi viene prospettata la possibilità di fare un colloquio per una grossa azienda nazionale che si è apprestata ad aprire i battenti a Palermo; superando brillantemente il colloquio, vengo assunta con un contratto a termine di sette mesi: contemporaneamente, però, la malattia di mio padre si aggrava e ci viene comunicato dai medici che urge un trapianto di fegato
In famiglia ci troviamo tutti inesorabilmente in un vortice affinché un organo possa salvare la vita di mio padre, che da anni combatte con lo spettro della malattia epatica.
La nostra ricerca non trova grandi risultati ma i tempi si stringono: bisogna fare qualcosa, i medici pensano ad una compatibilità familiare. Ci sottoponiamo tutti alle analisi preliminari; il mio fegato pare l’unico compatibile; nonostante i rischi e le obiezioni della mia famiglia, decido di fare quello che secondo me qualsiasi figlia avrebbe fatto per un padre: donare una parte del mio fegato.
Da allora in poi mi sono ritrovata ad affrontare un calvario fatto di day-ospital, prelievi, visite di controllo d’ogni genere. La cosa più grave e sconcertante è che quanto mi è accaduto, mi ha paradossalmente penalizzato nello svolgimento del mio lavoro, infatti, mi è comunicato improvvisamente che secondo l’azienda il mio profilo non è conforme a quanto richiesto dall’azienda stessa e ciò solo perché ho deciso di salvare la vita a mio padre.
Una settimana prima dell’intervento chirurgico, mi ritrovo fuori dal mio posto di lavoro, malgrado ciò l’intervento viene effettuato con successo sia per me sia per mio padre, ma rimane un grosso problema: provvedere al sostentamento della famiglia.
Finita la mia convalescenza, mi metto alla ricerca di un altro lavoro; la ricerca è vana e pesante, molte porte mi vengono chiuse in faccia anche dalle istituzioni, che promettono e non mantengono.
Finalmente si apre uno spiraglio e vengo contattata da un’altra grossa e conosciuta azienda a livello nazionale che ha molti punti vendita in città; mi viene offerta l’opportunità di un periodo di prova di 15 giorni con un conseguente contratto di 3 mesi.
Tuttavia, nonostante il mio impegno incondizionato e avendo messo a disposizione della medesima azienda il mio bagaglio d’esperienza decennale nel settore, mi viene bruscamente comunicato (senza alcuna motivazione specifica), che il mio profilo non è corrispondente alle esigenze dell’azienda, eludendo qualsiasi altra motivazione, ma lasciando intendere che l’intervento a cui mi sono sottoposta poteva essere l’unico motivo di esclusione (non essendocene altri!) per le eventuali conseguenze fisiche, nonostante la documentazione medica dell’ISMETT attestante il mio perfetto stato di salute.
Mi ritrovo ancora oggi senza lavoro e, nella desolazione della mia stanza mi ritrovo a scrivere uno sfogo personale che invio alle testate giornalistiche, perché è giusto che l’opinione pubblica sappia come sia crudele il destino per una ragazza che come me ha avuto il coraggio, senza nessun ripensamento alcuno, di aver salvato la vita al padre, non considerando che, oltre a fare a meno ad una parte del proprio fegato, avrebbe avuto precluso ogni possibilità di lavoro.