Non so se ci avete fatto caso, ma c’è una recrudescenza di notizie di cronaca giudiziaria non di poco conto. Nel giro di poche ore, su e giù per lo Stivale, si è arrivati al giro di vite per un’inchiesta sugli appalti a Napoli che ha mandato in carcere un paio di assessori comunali e ha coinvolto un manipolo di altri affaristi (imprenditori e parlamentari compresi), si sono chiesti quattro anni per l’avvocato Mills in ragione di un rapporto di sudditanza nei confronti di Berlusconi, si sono indagati per bancarotta i vertici pregressi di Alitalia, si sono chiuse le indagini per l’inchiesta Why Not, si è assistito a uno scontro tra un giudice e un ministro sul destino di un essere umano in stato vegetativo.
E’ inevitabile che qualcuno – e non certo sbagliando – si interroghi sul peso della giustizia nella vita di questo Paese. E non certo per quello strapotere di cui si vagheggia, quanto per una certa indole molto italica che vuole la giustizia difesa da tutti, ma tenuta a distanza dagli interessi di ciascuno. Come i bambini vivaci: belli, cari, ma a casa d’altri. La giustizia, insomma, esercita una sorta di fascino perverso.
Sono di quella corrente di pensiero che sostiene l’importanza di una cura efficace, anche dura e dolorosa, al di sopra di qualunque palliativo. Non credo che Mani Pulite avrebbe sortito gli effetti indesiderati che ha avuto, se non ci fosse stato un cancro politico e sociale da aggredire. C’era una metastasi, si doveva ricorrere a un intervento mutilante: nessun altra via.
Tuttavia farei la figura del pesce in barile (e io odio le conserve ittiche) se dimenticassi un passaggio della lettera dell’anarchico conservatore Giuseppe Prezzolini a Giovanni Amendola: la giustizia e i suoi palazzi sono qualcosa da cui è saggio cercare di stare il più lontano possibile.
Il consiglio vale solo se lo si pronuncia con avvilimento.