Sono un appassionato del Natale. E’ l’unica festa dell’anno che mi piace, probabilmente perché ha la giusta gradazione di malinconia, quel tanto che basta a far riflettere senza intristire. Ricordo la maggior parte dei “natali” della mia esistenza: il clima che si rinfresca, i regali sotto l’albero, le serate con pochi ma buoni parenti, il tacchino ripieno di mia madre, l’avvicinarsi delle vacanze sulla neve (sono un patito di sci). Mi piace il Natale soprattutto perché è una specie di resa dei conti con se stessi: parente del Capodanno, impone con levità bilanci e proponimenti.
Quello di quest’anno però è un Natale che mi spiazza. I requisiti per una felice festività li ho ritrovati tutti, ho persino sorvolato su alcune voci di bilancio e abbondato coi proponimenti. Tuttavia vedo in giro una tristezza che non lascia spazio all’illusione. Negozi semideserti, città buia, cinghie strette e braccia larghe. Un lamento sommesso che non raggiunge la dignità di urlo di protesta, un annuncio di privata disperazione che non prelude ad alcun gesto liberatorio. So quanto contino le congiunture internazionali, nel campo della macroeconomia, e quelle domestiche, nel campo dell’economia reale fatta di conti, bollette e liste della spesa. Questo Natale, almeno nelle mie lande, respiro una rassegnazione che non conoscevo.
Così è.
Speriamo che passi.