Mi capita spesso di rivivere eventi vissuti come se li osservassi dall’esterno. Prima di leggere un interessante articolo di Jacob Stern su The Atlantic mi sentivo un po’ a disagio perché credevo che fosse colpa di un mio impulso a revisionare continuamente, a cercare di diluire le mie responsabilità, a esternalizzare i miei complessi di colpa. Invece, con sommo sollievo, apprendo che questo fenomeno non è solo associato a vari disturbi mentali (oddio, ci manca solo questo!), ma è abbastanza diffuso tra le persone, diciamo, sane.
Liquido subito la parte ecumenica del ragionamento, quella larvatamente scientifica.
Come scrive Stern “la distinzione tra ricordi in prima e terza persona risale almeno a Sigmund Freud” e oggi sappiamo, da recenti ricerche, che “più un ricordo è lontano, più è probabile che lo si rievochi in terza persona”.
Solo che a me capita spesso di vedermi in azione, magari in un’azione non ordinaria (tipo visitare un luogo strano, cucinare un piatto mai provato, incontrare una persona che mai mi sarei sognato di incontrare) e sganciare la soggettiva dai miei occhi.
E qui inizia l’abbondante e inarrestabile fase del dopo.
Come accade a tutti, la mia vita è fatta di scelte. E le scelte sono scommesse.
Traducendo: nonostante uno si ostini a caricare di importanza (etica, sociale, religiosa, affettiva) scelte e consigli, le conseguenze sono sempre sgonfie di questo plusvalore poiché la quota di influenza ambientale è talmente alta da renderle per molti versi indipendenti dalle nostre reali intenzioni.
È qui che entra in gioco l’arte di (lasciar) correre, intesa come invito a mollare ormeggi e ad abbandonarsi al flusso del presente senza sbattersi per contrastarlo.
Uno psicologo te la racconterebbe così: “Lasciar correre significa rinunciare alla coercizione, alla resistenza, alla lotta, in cambio di qualcosa di più forte e completo, la conseguenza immediata del lasciare le cose come stanno, senza farsi condizionare da propensioni o repulsioni, dall’intrinseca viscosità di desideri, simpatie, antipatie”.
Io invece la traduco così: “Lasciar correre significa vedere un torto all’orizzonte ed evitare di buttarcisi a capofitto, rinunciare alle pulsioni di giustiziere per affidare ad altri, più in alto e chissà dove, il compito di tirare le somme, vivere di quiete zen, e dotarsi di un ampio repertorio di guance da porgere sin quando ci saranno mani cariche di schiaffi”.
Non è una cosa semplice da archiviare come fatta.
Molto spesso il “lasciar correre” è il rifugio del “chi me lo ha fatto fare”. Ma è anche vero che, soprattutto dalle mie parti, far finta di niente è il succo di una cultura che, lasciando correre, ha macinato morti, umiliazioni e distruzione.
Insomma l’arte di (lasciar) correre è uno di quegli argomenti che si misurano con un’addizione di esperienze. Non basta la mia, non basta la tua, ce ne vogliono molte, incrociate. Possibilmente con un concerto di visioni in terza persona. Per questo andrebbero incrementati per decreto il dibattito, lo scontro ideologico, la crasi di culture. Invece è tutto un appiattirsi di consuetudini. Di atteggiamenti preconfezionati che vorrebbero farsi cultura, ma sono ozio, sonnecchiamento della ragione. Nel mio mondo perfetto ci si accapiglia di continuo per un progetto, si discute allo sfinimento per costruire una nuova città delle idee, si cercano gli opposti e anziché separarli si mettono a confronto. Ma è il mio mondo visto in terza persona, con tutte le cautele del caso.
Per storia personale ho approfondito l’arte di correre. Quanto a quella parola tra parentesi mi sto attrezzando, ma non sono certo di riuscire.