Lo stupro di Grease

Dai reflussi del revisionismo ci si salva, forse, con gli appigli della ragione. Di certo uno si può mettere l’anima in pace, e solo quella, cercando di argomentare: anche se spiegare in certi casi equivale a tentare di svuotare il mare con secchiello.

La BBC ha mandato in onda, il giorno di Santo Stefano, Grease e sui social si è scatenata una bufera di accuse di sessimo, omofobia, incitazione allo stupro. Ora, una persona di buona creanza tutto si potrebbe immaginare tranne che una svolta del genere in quest’epoca di svolte cieche, senza senso. Eppure sarebbe bastato essere vigili negli ultimi anni per capire che nulla accade per caso. La cretinocrazia propagata dai social che amplifica ciò che meriterebbe la sordina o, nella stragrande maggioranza dei casi, i fischi degli amici del bar eleva a fenomeno il rutto dell’ubriaco. Minuscolo rimedio, ma che sempre rimedio è: occupiamoci di altri rutti possibili pur di disinnescare il disinnescabile.
Mentre ancora si dibatte sul razzismo di “Via col vento”, che esiste ma che è cinematografico quindi fuori, immune, da ogni rigurgito di polemica moderna, c’è un infinito elenco di film che, dinanzi al tribunale di Facebook e Twitter riunito in sessione plenaria, andrebbero contestualizzati. Non tanto per trovare giustificazioni, quanto per guardare i giurati in faccia e vedere l’effetto che fa.
Quattro rapidi esempi.

In “True lies” e in “Ritorno al futuro”, tutti gli arabi sono fanatici o terroristi: o entrambe le cose.

Ne “Il silenzio degli innocenti” il serial killer che si trucca da donna non è transessuale, ma la partita resta pericolosamente aperta.

In “Indiana Jones e il tempio maledetto” i cattivi forniscono una negativa versione stereotipata degli indiani e dei costumi indù.

In “Forrest Gump” il nome del protagonista viene da un suo antenato, Nathan Bedford Forrest, che è tra i fondatori del Ku Klux Klan.

Insomma c’è da scatenarsi.
Dalle risate.   

Piccole cose di pessimo gusto

calze
di Raffaella Catalano

Suppongo che a tutti noi piaccia qualcosa di inconfessabile. Niente che sia passibile di condanna, non intendo questo. Qualcosa, dico, che non si confà ai nostri gusti, alla nostra età, forse anche al nostro ruolo, eppure stranamente ci attrae e siamo costretti ad amarla in silenzio, temendo di perdere la faccia. Magari è una stupidaggine, una cosa infantile, per nulla intelligente o poco raffinata, ma se la facciamo, la vediamo, la sentiamo o la mangiamo ci cambia in meglio la giornata. Però se qualcuno ci sorprendesse a farla, vederla, sentirla o mangiarla, desidereremmo sparire dalla faccia della terra per l’imbarazzo. Per capirci: una volta un amico mi chiese di citargli una canzone che mi piaceva ma che non avrei mai ammesso pubblicamente di adorare. Sussurrando, memore di avere (all’epoca) ben trentanove anni, dissi “50 Special” dei Lunapop. Lo so, è terribile, ma che ci posso fare? Mi mette allegria, mi fa fare pace col mondo. Lui, quarantenne come me e serio professionista, mi confidò anche di peggio: sbavava per “Felicità” di Al Bano e Romina.
A Palermo si chiamano “tasciate”. Piccole cose di pessimo gusto, per dirla con Guido Gozzano.
Visto che ho deciso di fare coming out, ecco un elenco di quello che mi piace di “tascio” e che finora è rimasto inconfessato:
–    il film “Grease”, rigurgito adolescenziale che avrò visto venti volte e ancora vedo;
–    le parigine (le calze che arrivano appena sopra il ginocchio, per chi non le conoscesse, ma da non confondere con le autoreggenti), che compro e trovo irresistibilmente sexy anche se non ho più diciott’anni;
–    i pigiami con orsetti, cuoricini e altre cazzate (quando dormo da sola, of course!), che scaldano il corpo e l’anima;
–    la brioche con le patatine Pai dentro, merenda improponibile anche per una festa delle scuole medie;
–    tutte le canzoni di Cesare Cremonini, perché da “50 Special” non mi sono più ripresa.
Ecco cosa intendo: uno sputtanamento ingenuo e genuino, che propongo anche a voi.