Dai reflussi del revisionismo ci si salva, forse, con gli appigli della ragione. Di certo uno si può mettere l’anima in pace, e solo quella, cercando di argomentare: anche se spiegare in certi casi equivale a tentare di svuotare il mare con secchiello.
La BBC ha mandato in onda, il giorno di Santo Stefano, “Grease” e sui social si è scatenata una bufera di accuse di sessimo, omofobia, incitazione allo stupro. Ora, una persona di buona creanza tutto si potrebbe immaginare tranne che una svolta del genere in quest’epoca di svolte cieche, senza senso. Eppure sarebbe bastato essere vigili negli ultimi anni per capire che nulla accade per caso. La cretinocrazia propagata dai social che amplifica ciò che meriterebbe la sordina o, nella stragrande maggioranza dei casi, i fischi degli amici del bar eleva a fenomeno il rutto dell’ubriaco. Minuscolo rimedio, ma che sempre rimedio è: occupiamoci di altri rutti possibili pur di disinnescare il disinnescabile.
Mentre ancora si dibatte sul razzismo di “Via col vento”, che esiste ma che è cinematografico quindi fuori, immune, da ogni rigurgito di polemica moderna, c’è un infinito elenco di film che, dinanzi al tribunale di Facebook e Twitter riunito in sessione plenaria, andrebbero contestualizzati. Non tanto per trovare giustificazioni, quanto per guardare i giurati in faccia e vedere l’effetto che fa.
Quattro rapidi esempi.
In “True lies” e in “Ritorno al futuro”, tutti gli arabi sono fanatici o terroristi: o entrambe le cose.
Ne “Il silenzio degli innocenti” il serial killer che si trucca da donna non è transessuale, ma la partita resta pericolosamente aperta.
In “Indiana Jones e il tempio maledetto” i cattivi forniscono una negativa versione stereotipata degli indiani e dei costumi indù.
In “Forrest Gump” il nome del protagonista viene da un suo antenato, Nathan Bedford Forrest, che è tra i fondatori del Ku Klux Klan.
Insomma c’è da scatenarsi.
Dalle risate.