Marty, Doc e i film salvavita

Molti di noi hanno film salvavita, film che a un certo punto devono essere rivisti. Non c’entrano i gusti cinematografici, il rispetto per pellicole di alto livello, le esigenze culturali, c’entra solo una pura necessità biologica. Sono film che magari piacciono solo a noi e che ad altri fanno cagare, che in pochi hanno visto o che al contrario sono prodotti ultra pop. Che siano capolavori o semplice immondizia non importa, non ci importa: il nostro cervello chiede di metterci lì a guardarli per l’ennesima volta perché ne ha bisogno, come di una pasticca magica. Un Viagra per l’autostima.

Io ne ho diversi (tipo cinque), ma il podio è tutto per la trilogia di Ritorno al Futuro. Ogni tot di anni devo ricavarmi cinque ore e abbeverarmi alla fonte della felicità.
Vi ho già detto della mia insana passione per i viaggi nel tempo (ci ho pure basato lo schema narrativo di un’opera) e ovviamente nel capolavoro di Robert Zemeckis e Bob Gale il grande arcano è tutto nel motore bizzoso della DeLorean DMC-12 che tramite il “flusso catalizzatore” consente di muoversi nel fluire degli anni in modo quasi istantaneo.
Più volte nel corso della mia vita ho cercato di decrittare gli elementi di fascinazione di “Ritorno al futuro” e solo qualche notte fa, al termine di una gioiosa maratona in cui avevo inseguito i destini di Marty McFly e del Dr.Emmett “Doc” Brown, sono riuscito a raggranellarne alcuni.

Innanzitutto la cura del dettaglio, non solo in senso narrativo (quella è una deformazione professionale che qui cerco di mettere da parte), ma proprio nella sua essenza umana, sociale. Nulla nella trilogia è lasciato al caso, proprio nulla. Un fax, la sovraccoperta di un libro, una foto ricordo, un incidente stradale, un binario morto, un riff di chitarra, un sorriso complice, una cazziata del preside. Tutto ciò che sta ai margini, nascosto nelle pieghe della consuetudine può diventare maestosamente importante, tutto ciò che sfugge all’eccezionalità può capovolgere un destino, tutto quel che sembra può non essere e viceversa.

Poi il sistema dei rapporti umani, che più semplici sono e più complicati diventano da descrivere. Marty e “Doc” sono amici, ma non si salvano a vicenda rivelando ciascuno all’altro le trappole (mortali) del futuro. Cercano di farlo, ma non insistono: perché conoscere il futuro è pericoloso e potrebbe influire “sul continuum spazio-temporale e determinare un evento catastrofico”). In tutta la trilogia l’amore madre figlio, fidanzato fidanzata, marito moglie, è affidato a una geometria di eventi che non si può modificare, pena la creazione di universi paralleli in cui nessuno è ciò che era e mai più lo sarà. Gli autori riescono a sfiorare il tema dell’incesto con divertita grazia a conferma che tutto si può narrare se si è in grado di farlo per abilità creativa e disponibilità di audience adeguata. Non so cosa sarebbe successo se il film fosse uscito oggi anziché nel 1985, probabilmente un Comitato di genitori proto-cattolici si sarebbe mobilitato contro il messaggio diseducativo di un film che manda indietro nel tempo un ragazzo di cui la futura madre si innamora.

Infine il destino del protagonista. L’eroe giovane e spensierato, idolo di noi giovani e spensierati, inciampa e cade non nella rete di tranelli dell’odioso Biff Tannen, ma nella tela invisibile del Morbo di Parkinson e solo un anno dopo aver finito di girare l’ultimo episodio della trilogia vede la sua vita da star hollywoodiana già incrinata dalla malattia. C’è qualcosa che rende ancor più cinematograficamente eroico il suo personaggio, oggi a distanza di quasi quarant’anni, ed è la logica della piena del fiume: a volte accade che ti prenda all’improvviso bloccandoti le gambe e in quel momento ti accorgi che non importa se le tue scarpe erano più belle e costose di quelle del tale che ti stava accanto. Quando le cose accadono, accadono e basta e neanche una macchina del tempo può aiutarti. Guai a barare col flusso degli eventi. Come si dice, il tempo non torna e non perdona.

Lo stupro di Grease

Dai reflussi del revisionismo ci si salva, forse, con gli appigli della ragione. Di certo uno si può mettere l’anima in pace, e solo quella, cercando di argomentare: anche se spiegare in certi casi equivale a tentare di svuotare il mare con secchiello.

La BBC ha mandato in onda, il giorno di Santo Stefano, Grease e sui social si è scatenata una bufera di accuse di sessimo, omofobia, incitazione allo stupro. Ora, una persona di buona creanza tutto si potrebbe immaginare tranne che una svolta del genere in quest’epoca di svolte cieche, senza senso. Eppure sarebbe bastato essere vigili negli ultimi anni per capire che nulla accade per caso. La cretinocrazia propagata dai social che amplifica ciò che meriterebbe la sordina o, nella stragrande maggioranza dei casi, i fischi degli amici del bar eleva a fenomeno il rutto dell’ubriaco. Minuscolo rimedio, ma che sempre rimedio è: occupiamoci di altri rutti possibili pur di disinnescare il disinnescabile.
Mentre ancora si dibatte sul razzismo di “Via col vento”, che esiste ma che è cinematografico quindi fuori, immune, da ogni rigurgito di polemica moderna, c’è un infinito elenco di film che, dinanzi al tribunale di Facebook e Twitter riunito in sessione plenaria, andrebbero contestualizzati. Non tanto per trovare giustificazioni, quanto per guardare i giurati in faccia e vedere l’effetto che fa.
Quattro rapidi esempi.

In “True lies” e in “Ritorno al futuro”, tutti gli arabi sono fanatici o terroristi: o entrambe le cose.

Ne “Il silenzio degli innocenti” il serial killer che si trucca da donna non è transessuale, ma la partita resta pericolosamente aperta.

In “Indiana Jones e il tempio maledetto” i cattivi forniscono una negativa versione stereotipata degli indiani e dei costumi indù.

In “Forrest Gump” il nome del protagonista viene da un suo antenato, Nathan Bedford Forrest, che è tra i fondatori del Ku Klux Klan.

Insomma c’è da scatenarsi.
Dalle risate.   

Il fascino pericoloso del viaggio nel tempo

Sono sempre stato affascinato (molto) dalla fantasia del viaggio nel tempo. Da sempre film, romanzi, serie tv, esperienze musicali che si muovono arditamente sull’asse passato-presente-futuro sono gocce di miele per la mia fame logica da orso. Mi attira la genialità polemica di “Ritorno al futuro” – avrò visto la trilogia una dozzina di volte -, mi incanta la semplicità di “22/11/63” del maestro Stephen King, frequento con piacere i primi episodi della serie tv “L’esercito delle 12 scimmie” – dopo aver adorato il film di Terry Gilliam – e in generale subisco un’attrazione patologica per un filone narrativo che risale alla fine dell’Ottocento, grazie all’opera di Herbert George Wells. Questo signore ebbe un’idea: inventarsi narrativamente per la prima volta un mezzo meccanico per viaggiare attraverso le epoche. Il signor Wells aveva anche un certo ardire nel descrivere le sensazioni del protagonista del suo romanzo principe che, ovviamente, si intitola “La macchina del tempo”. A costui fa dire:

Suppongo che il suicida mentre appoggia alla tempia la canna della pistola provi per ciò che succederà l’attimo seguente, quello che in quel momento provai io: un sentimento di curiosità.

E qui siamo a uno dei due elementi chiave della fascinazione: la curiosità. Direte voi: la curiosità è alla base di ogni desiderio, di ogni spunto vitale, di ogni passo avanti. Vero: ma avete mai pensato a un reverse logico? La curiosità come molla per indagare la fine sazia di un desiderio, per muoversi nelle sabbie mobili dell’insoddisfazione, per guidare il paradossale cammino verso il passato. La macchina del tempo sana gli opposti e addirittura li unisce, come nessun altro arnese, in un’unica linea retta.
E siamo al secondo elemento chiave: quello del conforto avventuroso. Un sistema aperto alla riparazione, anzi alla cancellazione dell’evento di frattura, è doppiamente affascinante. Perché è un paracadute e perché è un rompicapo. Il concetto del paracadute è semplice e non va spiegato. Per capire il peso del rompicapo nella fascinazione basti pensare al butterfly effect, cioè all’idea che piccole variazioni nelle condizioni iniziali possono produrre immense modifiche a lungo termine. Concetto spiegato semplicemente da Alan Turing nel 1950:

Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza.

Fatta eccezione per la Time Machine di Apple, uno dei pacchi tecnologici più clamorosi degli ultimi cinquant’anni, che sia farfalla o DeLorean, che sia “Sliding Doors” o teoria del caos, la teoria del destino modificabile è come l’elisir di lunga vita: auspicabile, ma pericolosissima. Per quante volte si possa ripetere una scena, per quanti finali si possano riscrivere, per quanti errori fatali (fatali?) si possano cancellare, resta l’atroce domanda del diavolo tentatore Lord Henry Wotton a Dorian Gray:

Ora, ovunque andiate, voi incantate il mondo. Sarà sempre come oggi?

No. Ed è atrocemente giusto che sia così.