Ieri sera io e mia moglie siamo andati a vedere lo spettacolo di Beppe Grillo: lei era vestita da aspirante parlamentare del Pdl, io da capopolo della Fiom di Mirafiori. In due, involontariamente, impersonavamo le differenti istanze di un intero Paese.
Al teatro abbiamo trovato esattamente quello che ci aspettavamo di trovare: pane per i denti di un popolo affamato. Invettive, ricostruzioni precise, sdegno.
Grillo, come sempre bravo e tenace, ha cavalcato i soliti temi. Dal nucleare a internet, dall’ecologia al Parlamento degli inquisiti, ha condotto senza scossoni il pubblico verso la destinazione stabilita: il voto per le liste civiche.
Ho visto quasi tutti i suoi spettacoli e posso dire che, col tempo, la forza politica ha preso il sopravvento sulla quella comica. La fragranza di alcune battute geniali (famosa quella a proposito della foto di due genitori italiani con un bimbo cinese adottato, “lo vedete quel bambino? Quello non è il figlio, ma il datore di lavoro”) è solo un ricordo.
Oggi Grillo, pur conservando un’indiscutibile genialità nel saper scovare puntelli di cronaca al suo racconto, cade spesso nell’autocelebrazione. Gran parte dello spettacolo se ne va coi ricordi dei V-Day, con il remake di Woodstock a Cesena, con l’elenco di iniziative pubbliche portate avanti dal suo movimento e con la reiterazione delle maledizioni contro la nostra classe politica. Tutti temi in larga parte condivisibili, solo che solitamente per assistere ai comizi non si paga. In quest’ottica diciamo che quaranta euro di biglietto sono decisamente troppi. Ne bastavano venti.