Il tempo non torna e non perdona

Domenica 1 marzo andremo in scena al Real Teatro Santa Cecilia di Palermo con Butterfly Blues, una storia di amore e depistaggi, di illusioni e tecnologia, di passione e tradimenti. È un’opera corale di parole, musica e danza: una delle cose più complesse nelle quali mi sono imbarcato. Ancora ci sono dei posti disponibili, ma non è questo il motivo di questo post.
Scrivo perché viviamo tutti un momento molto difficile con un virus che ha fatto più tragedie nella psiche di molti che nella realtà scientifica. Il clima di follia collettiva di questi giorni ci ha indotto a mantenere la barra a dritta, nonostante una navigazione in piena burrasca. Nelle nostre scelte ci hanno guidato due solide certezze: il ferreo rispetto delle norme e la fede nella buona creanza. Quindi spettacolo sia. Perché l’arte ha anche il compito di gridare quando tutti stanno zitti, di nuotare controcorrente, di fare il primo passo quando gli altri esitano. E non è coraggio, è semplicemente il motivo per cui c’è.
Butterfly Blues ha anche un valore intrinseco che non dipende dalla qualità del nostro lavoro (quella la giudicherete voi) ma dalle forze vettoriali che in qualche modo convergono in questo progetto: il Brass Group che mette il cappello sull’evento, il Teatro Massimo che è un primo motore immobile di questo gruppo di lavoro, Piano City per cui quest’opera è nata. Tre eccellenze italiane che ci onoriamo di servire per dare a Palermo uno spettacolo, crediamo, interessante. Uno spettacolo che, vale la pena ribadirlo visto i tempi che corrono, non usufruisce di un solo centesimo di fondi pubblici.
Butterfly Blues è il nostro omaggio alla città, in un momento in cui è importante ricordare – come dice il nostro protagonista – che il tempo non torna e non perdona. E che alla fine i conti tornano, sempre.

Butterfly Blues
di Gery Palazzotto
Interpretato da Gigi Borruso
Musiche scritte e eseguite da Marco Betta, Vito Giordano, Fabio Lannino e Diego Spitaleri
Coreografie di Alessandro Cascioli eseguite da Alessandro Cascioli e Yuriko Nishihara
Grafica di Luca Orlando
Ufficio stampa: Rosanna Minafò

Padre e figlio, una lezione

Padre e figlio sul palco. Chitarristi. Ti aspetti – da indemoniato della musica – una minestrina tiepida condita di buone intenzioni, brodaglia familiare, emozioni insipide. Del resto quale padre non sogna di poter suonare col proprio pargolo, costi quel che costi? E invece l’altra sera al Blue Brass, grazie a un assist di Fabio Lannino, Vincenzo e Matteo Mancuso hanno frullato e sconvolto tutte le aspettative.
Papà Vincenzo, musicista di lungo corso dalle collaborazioni che valgono da sole almeno un paio di vite vissute, ha fatto sì il papà, ma senza far mai pesare il ruolo. Il giovane Matteo, promettente virtuoso della chitarra, ha fatto il figlio accelerando senza mai sollevare polvere. Il risultato è stato un concerto godibile e coinvolgente come pochi di questo genere: anche tecnicamente perfetto.
Sono molto sensibile ai messaggi criptati della musica poiché, come ho già abbondantemente scritto, la musica mi ha salvato la vita più volte. Nei momenti difficili come in quelli felici, c’è sempre stata una canzone che stendeva un tappeto sotto i miei pensieri e mi faceva sdraiare lì, da solo anche quando ero tra la folla, nudo anche quando ero bardato di tutto punto sul Monte Bianco, sorridente anche quando piangevo a fontane.
Ecco, nella musica di questo padre e di questo figlio c’è tutto il segreto impenetrabile dell’armonia indotta da tre accordi, una pentatonica (che è un po’ l’esperanto dell’improvvisazione) e dal feeling conseguente.
Felicità è anche sapersi regalare una colonna sonora. A sorpresa.
Però in questo caso siete avvisati. Cercateli.