Dal mio dizionario

Gomorrismo
Sost. maschile. Pl. Gomorrismi.
Fenomeno letterario derivato dal successo del libro “Gomorra” di Roberto Saviano. Di libri-inchiesta che affrontano, nel solco della serialità, varie tematiche legate alla criminalità italiana, specialmente quella organizzata, nelle sue più diverse forme. Di cronaca romanzata, intesa dal pubblico come pregevole strumento obiettivo per la conoscenza della realtà criminale in tutte le sue sfaccettature. Di genere letterario che ha rimpiazzato, nelle classifiche, il più longevo noir italiano; in accezione negativa: divulgazione di maniera, sottogenere italico di grande successo sotterraneamente ispirato all’opera “A sangue freddo”, del capostipite americano Truman Capote.
Agg. Gomorrista: di autore coraggioso che si immerge nei mali della società ergendosi a paladino della legalità con i suoi scritti. Es. le classifiche del sito Ibs sono piene di gomorristi; se vuoi vendere devi essere più gomorrista/fare più gomorrismo; devo regalare un libro, avete qualcosa di gomorrista? Dostoevskij scrisse grandi verità pur non essendo gomorrista/non facendo gomorrismi.

I passi della Granbassi

di L’Avvelenata

Cara Margherita Granbassi,
lei è un’ottima atleta e lo ha dimostrato a tutti. Lei è anche un’atleta dei carabinieri e pure questo è noto. Ma che coltivasse sogni televisivi penso lo sapessero in pochi, pochissimi, forse nemmeno i suoi parenti. Poi ha esordito ad Annozero con Santoro, e l’Arma gliel’ha consentito, salvo fare dietrofront dopo la prima puntata. Ora, scorrendo le cronache che la riguardano, apprendo che lei dovrebbe rinunciare alla divisa (e quindi immagino anche alla sopravvivenza economica. Ma di questo so poco, quindi lo spieghi lei) per rimanere in trasmissione. Sorvolo su se e quanto questo clamore e queste polemiche influiscano sull’immagine e la serenità di un’atleta, perché non è affar mio e dormo bene la notte anche senza saperlo. Però le chiedo: se, a conclusione del braccio di ferro in corso, lei dovesse essere congedata dall’Arma e dar seguito al suo ingaggio ad Annozero, cosa le offrirebbe in prospettiva una carriera in tv? Forse un’altra stagione santoriana, e nemmeno certa, dato che il prossimo anno – sempre che Santoro resista in televisione, e me lo auguro – lei non farà più notizia: non sarà più la nuova presenza femminile della trasmissione (perché sarà vecchia di una stagione) e non ci saranno altre polemiche, come in questi giorni, perché la diatriba si sarà risolta. Quindi, bene che vada, lei vivrà un altro inverno sotto riflettori molto meno luminosi. E poi? Quale sarà il passo successivo? Campare, come tante e tanti, di ospitate negli squallidi salottini Rai e Mediaset? Commentare l’Isola dei famosi? Sedersi su uno sgabello a Unomattina? Fare qualche sorpresa a un telespettatore di Carramba o di C’è posta per te? Entrare in giuria ad Amici? E da lì, magari, concedersi pure un servizio sexy su un mensile qualsiasi, come una delle mille caduche veline?
Annozero va benissimo. Anche se qualcuno già si domanda se un carabiniere, in pubblico, possa schierarsi politicamente o no. Ma dopo? Questo è il mio dilemma. Cosa la aspetterà quando lei sarà fuori dallo spazio televisivo di Santoro?
Cara Margherita, la tv lusinga ma spesso tradisce. E poi, a giudicare dalla fine ingloriosa di molti sportivi (Cabrini, Schillaci, Tacconi e altri miti rimasti incastrati tra atletica e reality, piombati nella polvere di stelle e mai più rialzatisi), alla lunga non paga. O forse paga dal punto di vista economico, anche se non per molto. Allora non è meglio, forse, restare atleta e carabiniere, almeno nella sobrietà e nello stile?

Meglio viva

Mia nonna, anni fa, mi raccontava che quando mia madre era in età da primo fidanzatino – o da flirt, come si diceva allora – le raccomandava sempre: “Non ti concedere presto, aspetta il momento giusto, aspetta l’amore vero. E se, via via che vi frequenterete, lui tornerà alla carica, insisterà, tu temporeggia. Poi, quando sarai sicura e verrà il momento, sarà più bello”.
Io non ho ricevuto da mia madre raccomandazioni simili. O se non altro non così dichiarate. Ma il concetto del preservarsi, che poi venisse osservato o disatteso, una madre con figlie della mia generazione lo faceva passare comunque. Meno detto, meno raccomandato, ma ugualmente veicolato in qualche modo.
Facendo un ampio salto temporale, la cronaca recente ci ha sommersi di casi in cui l’amore – inteso come desiderio, come sentimento o come sesso – certi uomini, in un numero che cresce come un bollettino di guerra, se lo conquistano e se lo tengono non con l’amore, ma con la forza. Forza di calci, pugni, morsi, segregazione, corde, coltelli, pistole. Penso a criminali come Luca Delfino, accusato di avere ucciso la sua ultima fidanzata e forse anche una precedente. Ragazze che non lo volevano più, che cercavano di chiudere la storia come tante se ne chiudono. Ragazze che, prima di quel momento, avevano subito i suoi calci, i suoi pugni, i suoi morsi, la sua segregazione, le sue corde, materiali o immateriali. E che dopo, in questo caso, l’ultimo gesto di quell’uomo che hanno raccolto (anzi, per il momento, “avrebbero”, perché se è andata così lo diranno le sentenze, anche se in un caso Delfino è stato colto sul fatto) sono state le sue coltellate. E questo è uno solo degli episodi – ormai così numerosi da fare crudele e troppo consistente statistica – in cui l’amore che si dà o che a un certo punto non si vuole più concedere oppure che non si è mai concesso viene “trattenuto”, e per sempre, in questo modo. Con calci, pugni, coltelli, pistole.
Mi chiedo, se mia nonna e mia madre fossero oggi una madre giovane e una figlia adolescente, quale sarebbe la “traduzione” attuale di quel discorso tenero, retrò e forse un po’ ingenuo che all’epoca di quel primo flirt fecero tra loro. O se quel discorso dovesse affrontarlo una madre dei nostri tempi. Cosa direbbe? Se dovesse pensare per un attimo a quei legittimi “no” di donne che l’aberrazione di certi (molti, troppi) uomini ha affogato in (molte, troppe) pozze di sangue, forse – non sapendo quale uomo sua figlia potrebbe incontrare – si sentirebbe di consigliarle: “Concediti, amore mio, e non opporre mai resistenza”. Meglio una figlia viva che vergine un po’ più a lungo.

La pioggia

La pioggia mi sorprende sempre. La prima pioggia pioveva sulle grate delle finestre di una scuola elementare. Risucchiava i colori e li restituiva scandalosamente brillanti. Il verde appannato dei banchi diventava una cosa viva, tanto da inquietare noi – alunni degli anni Ottanta – abituati alla compostezza funerea delle istituzioni.
La pioggia cadeva sulle grate e mi allagava di malinconia. Io non sapevo darle un nome. E pensavo fosse tutta colpa delle gocce anonime. L’acqua feriva il cuore, tracimando in pozzanghere pesanti. I colori erano insopportabili. Stravolgevano la rassegnazione dell’autunno, la mite condanna del ritorno a sedie e compiti. Erano cicale dell’estate in un tenero campo di concentramento. Già allora mi difendevo – per quanto possibile – con i segni. Non conoscevo le parole, non le avevo incontrate e stavo, perciò, meglio. Disegnavo scarabocchi con i pastelli su un album ruvido. E mi coprivo con le sfumature contorte che ero (in) capace di evocare. Non tracciavo mai forme, o volti, o parabole sensate di una storia. Né alberi, né fogliame. Né chiari di luna e raggi sull’opacità della trama. Buttavo tinte pazze nello slargo del foglio sbrecciato. Le guardavo dileguarsi nella penombra delle incurvature. Non era un disegno. Era espansione dell’anima. Una conquista coloniale di me stesso.
La pioggia non smetteva di cadere. Picchiava fino a bagnare tutto. Annegava l’aula, il mio grembiule azzurro, le coroncine del rosario, la foto del presidente, i crocifissi, le mie mani e il mio cuore chini su un foglio che tornava bianco per infinita cancellazione dell’amore.
Ora io conosco la pioggia e so quanto male può fare, se appena le credi, se credi che il tempo sia soltanto suo. Non ho imparato a proteggermi, non posso evitare l’impatto tra goccia gelida e carne fumante, non sono nemmeno bravo a ripararmi. In fondo sono ancora un grembiule che nasconde un bambino. Ma il tempo mi ha insegnato una banalità essenziale. Dopo la pioggia c’è sempre il sole.

Un chilo di legalità

Quanto vale un chilo di legalità? Mi sono posto la domanda mentre mettevo a punto, con altri qualificati amici, un’iniziativa di cui vi dirò tra un minuto. Prima il tema. Abbiamo convertito all’accezione consumistica Che Guevara (le magliette), l’amore e la memoria. C’è qualcosa che sfugga ancora al cosiddetto libero mercato, alla misurazione e alla signoria dello scaffale?
Probabilmente, no. Tuttavia, in questo caso squisitamente “legalitario” – ecco la risposta che mi è venuta in mente – non è detto che sia un errore. Non è detto che sia sbagliato fare i conti in tasca al “bene”, per capire finalmente che il “male” non solo fa schifo, ma nemmeno ci arricchisce.
Prendete un siciliano con una coppola media – né boss, né cittadino compiuto – e piazzategli davanti le immagini di una strage di mafia, col suo coro dolente di vittime morte e di vittime sopravvissute. Reagirà, sul momento, con sdegno. L’intimo senso di commozione violenta si trasformerà in necessità pubblica di redenzione. Quel siciliano risorto, per due o tre giorni, non butterà per terra le cartacce. Infine, tornerà l’autunno dell’abitudine che sempre comprime una rottura esistenziale. Torneranno le cartacce per strada. Quel siciliano tornerà ad essere il solito siciliano.
La via emotiva alla palingenesi si è dimostrata difficile da praticare. Ha cambiato qualcuno, forse di più. Ma non moltissimi, né tutti.
Immaginiamo un percorso diverso. Una strada che parta dal portafoglio e arrivi dritta al cuore. Facciamoci, dunque, i conti in tasca. Ragioniamo, analizziamo. Quando scopriremo che essere siciliani nel senso mafiologico del termine (e ci sono svariati altri modi per fortuna) conduce soprattutto svantaggi tangibilissimi e sottosviluppo, saremo in grado di organizzare una risposta collettiva al problema. Alcuni commercianti hanno smesso di pagare il pizzo perché non era più conveniente farlo.
Non nego affatto il valore puro di una rivoluzione profondamente spirituale e identitaria, né mi sogno di affermare che è irrealizzabile o che in parte non sia già in atto. Sostengo che esistono sistemi collaterali per aiutarla a nascere e a mettere i denti da latte.
La domanda d’avvio era: quanto vale un chilo di legalità? E’ una merce che possiamo produrre ed esportare? Chi volesse ascoltare opinioni autorevoli circa la risposta, può venire a Villa Filippina, a Palermo, per il Festival della Legalità. Ci sarò (umilmente) io, dietro le quinte. Ci sarà Gery per moderare un dibattito. Ci saranno Piero Grasso, le foto di Mario Francese e di Maria Grazia Cutuli, Antonio Ingroia, i pm che conoscono la mafia da capo a piedi. Ci sarà Davide Enia con una “cantata” inedita per Paolo Borsellino. Ci sarà Giuseppe Ayala. Ci saranno molti altri. Tutto spalmato in due fine settimana per cinque giorni. Venerdì 19, sabato 20 settembre, poi giovedì 25, venerdì 26, sabato 27. A breve vi farò sapere il programma nel dettaglio, se vi interessa.
Avvertenza. Siccome si parla di mercato, questa è anche pubblicità, perchè la faccenda mi sta a cuore. Ma è pubblicità progresso. E non ci guadagno.

Pronto, casa La Terza?

Ma ve li ricordate gli scherzi telefonici? Occorrevano: naturalmente un telefono (fisso, esisteva solo quello), un pomeriggio o una serata con le mani in mano (di queste ce ne sono state e sempre ce ne saranno), una vittima designata o colta a caso (entrambe destinate a chiamate regolari, perché uno scherzo senza tormentone è come una farfalla senza ali) e una buona dose di innocente vigliaccheria (non c’erano identificatori del chiamante). Si componeva il numero già ridendo, si teneva a bada l’esuberanza dei complici (senza, lo scherzo era come una farfalla, etc. etc.) con dei sttt! convulsi. Si aspettava con il cuore in gola che la voce dall’altro capo mettesse fine a interminabili tuuuut! densi di suspense.
Il resto era creatività pura, commedia dell’arte. Si andava dalla rielaborazione di canovacci supersfruttati (“Pronto, signora? Qui è la Sip. C’è un guasto. Soffi nel telefono… basta! mi ha gonfiato i coglioni!” “Pronto, qui l’acquedotto… acqua calda da lei ne arriva?… E fredda? Sì? Allora si lavi il culo!”) al plot estemporaneo con sottofondo noir (“Pronto? Come chi parla a quest’ora? Sono il vendicatore della notte…”) o legato alla quotidianità (“Signora, le sto mandando i 25 chili di filetto che ha ordinato”); dallo spunto basato sull’onomastica (“Pronto, casa Mussolini? Mi passi suo nonno Benito…” “Buonasera, il signor Fedele Mastronzo? Beato lei!” “Pronto, casa La Terza? Metti la quarta e vattene affanc…”) alla tenzone in rime baciate (“Pronto? Suca!”, “A me e al duca” “il duca non c’è più e me la suchi sempre tu!”).
Per quello che rammento io, il gioco raramente sconfinava nella molestia. Perché proprio di gioco si trattava, fondato su un soave principio infantile: stuzzicare, ridere, mettere giù, svanire, ritentare una sortita, sperando persino nella complicità dell’altro. Si seguivano regole ben precise, pena l’interruzione della linea. Erano bandite le minacce (e non solo perché la vittima avrebbe chiuso subito: mi piace pensare che si facesse ancora distinzione tra divertimento e violenza), si cercava di far durare la conversazione più a lungo possibile (il bello stava nello snodo imprevisto del plot, nello sviluppo inaspettato) e non si rincarava la dose quando a rispondere erano anziani e bambini. Forse idealizzo quella che in fondo era una cafonata, ma mi sento di affermare che lo scherzo telefonico, sul piano della fantasia, sta alle bravate su youtube come la radio sta alla televisione. La vittima aveva diritto di replica. Anzi, dava il “la” al divertimento, e non erano rari i casi in cui, prendendoci gusto, vi partecipasse. La si ascoltava, anziché – come su youtube – coprirla di insulti urlati, di farina, di uova marce, cazzotti, bottiglie molotov. Badando bene di essere sempre in primo piano sul videofonino o la telecamera.

Saviano: cronaca sì, letteratura no

Sono d’accordo con Alessandro Baricco (scrittore di cui ho letto quattro libri, apprezzandone solo due: “Novecento” e “Oceano mare”). Lui ha sostenuto di recente che “Gomorra” di Roberto Saviano è un misto mal riuscito di giornalismo e narrativa. E ha avuto parole molto tiepide per questo autore. Io vado oltre: per me “Gomorra” è un libro pessimo, anzi quasi illeggibile, dal punto di vista della forma e dello stile. Né risulta chiaro, a chi nei fatti campani non è così addentro, che cosa – in quelle pagine – sia realtà e cosa fiction (perché la finzione c’è, in “Gomorra”). Fermo restando il mio plauso per Saviano come persona, che ha molto – e lodevolmente – infastidito i camorristi, gli tributo qui tutta la mia solidarietà per le minacce ricevute e la vita blindata che da “Gomorra” in poi è costretto a fare. Però lo boccio senza appello come scrittore. Come giornalista non commento, perché non sono abbastanza ferrata nella conoscenza dei fatti di camorra da poter valutare nello specifico la portata professionale degli episodi che l’autore racconta. In quel libro, a mio parere, non c’è una sola pagina dalla scrittura godibile o anche solo “liscia”. Non c’è nulla di lineare, di letterariamente nitido. Senza, con questo, pretendere di trovare nella prosa di Saviano una scrittura alta, immaginifica, di quelle che ti si stampano nella memoria per sempre. Arte, o buon mestiere, insomma. Perché, secondo me, non ce n’è traccia. Ma la correttezza e la pulizia formale, da chi scrive, me la aspetto. Anzi, la pretendo. E soprattutto me la aspetterei da chi, come me, di lavoro fa l’editor. In una casa editrice come la Mondadori è possibile che nessuno – pur di fronte all’esultanza di chi aveva intuito anzitempo il carattere dirompente di “Gomorra” – abbia alzato una mano per dire: “La diamo una sfoltita alla logorrea? Limiamo la scrittura? Eliminiamo un quintale di nebbia sintattica da queste pagine?”. Pare proprio di no. Le immense vendite del libro sembrano dare decisamente torto alla mia indignazione. Eppure ho notato “Gomorra” nelle librerie di tante case di miei amici e conoscenti, ma ancora non ne ho trovato uno che l’abbia letto o sia riuscito a finirlo. Devo dedurre che avere un libro dall’ampia eco, come questo, regali una facciata d’impegno, ma non generi vera lettura?
Allora mi permetto di consigliarvi un altro libro di cronaca (senza fiction), edito sempre da Mondadori: “Cacciatore di mafiosi” del magistrato Alfonso Sabella. Un ottimo esempio di come cronaca e narrativa possano andare d’amore e d’accordo. Oltre a svelare aspetti inediti, interessanti e personali della ricerca e della cattura dei latitanti. La scrittura, qui, è pulita, scorrevole e accattivante. Requisito minimo di ogni buon libro. Specie quando, come questo di Sabella, non è uno strombazzatissimo bestseller.

Certo

Da quando non ho più una dimora fissa, causa allontanamento forzoso da casa mia, vivo da un mio amico. Questo mio amico ha molte amiche. E dico subito che io non le guardo nemmeno.
Dormo su un divano che è stato il teatro di certe acrobazie del mio amico, ammalato di sesso come un attore famoso di cui ho letto giorni fa: e se lui non fa notizia è perché fa l’avvocato. Ma al tribunale circolano innumerevoli voci sulle sue prestazioni. Anche sulla sua dotazione modesta. Ora spero che almeno lui non scopra questo blog, costringendomi ad andare in albergo.
A questo proposito, con l’aiuto del corsivo, rivolgo un appello alla mia ex consorte (so che legge sempre queste pagine): tu sai chi è il mio amico, per favore non dirglielo che so che non è molto dotato. A che ci siamo, sempre per favore, puoi farmi avere le giacche invernali? Magari le mandi con Giusy. Anzi no… scusa… ok, ti chiamo domani.
Dov’ero arrivato? Ah, sì. Quando arrivano le donne, alcune anche interessanti, io indosso l’aria triste, esco e vado a mangiare da solo. Ciò fa di me “l’amico che soffre perché buttato fuori di casa”. Se volessi me le farei, ma per ora non mi va. Al ristorante spesso ascolto i discorsi dei miei vicini ed è per questo che sono giunto a una conclusione: certi uomini andrebbero soppressi da piccoli.
 Giusto ieri, accanto al mio tavolo, era seduta lei: bella donna, bionda, tiratissima. Una di quelle signore che fanno la messa in piega anche ai peli delle braccia. 
Lui meno bello, un po’ stempiato, occhiali blu a mezzo naso per leggere il menù. Riporto fedelmente il dialogo.
Lui: “Che vuoi? Ti piace il pesce al cartoccio o vuoi l’antipasto? Prenditelo l’antipasto che me ne mangio un po’ del tuo. Talè… 13 euro un poco di pesce spada e due gamberoni. Niente… talè, prenditi il primo. Ti piacciono gli spaghetti allo scoglio? Si, facciamo così, tu ti prendi gli spaghetti allo scoglio e io la ricciola”.
Lei in un impeto di autonomia cerebrale: “No! Io non voglio il primo, preferisco il secondo”
Lui: “Allora prenditi l’insalata di mare che costa 7 euro e io mi prendo la ricciola e te ne do un poco. Da bere prendiamo un bicchiere di vino e te ne prendi un poco da me? L’acqua la prendiamo piccola che poi resta sempre ed è veramente peccato lasciarla?
Lei: “Certo”.
Lui: “Insalata niente che ne abbiamo tanta nel frigo e poi si butta”
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Lei: ”Certo”.
Ordinano. Poi lui si leva gli occhiali, rotea lo sguardo e, sempre rivolto all’ormai affranta moglie, dice: 
“Speriamo che non ci rapinano qui che mi pare un posto di rapine. Meno male che non abbiamo preso il vino. Ah, non ti ho detto… lo sai che oggi quell’analfabeta del mio collega è arrivato con i pantaloni tutti scuciti? Ma io dico, si può? Com’è possibile che sua moglie manco sappia cucire.
 Ma il pane… almeno il pane ce lo potevano portare. Il trucco in questi ristoranti è imbottirsi di pane così la fame passa”.
Lei: “Certo”.
Lui: “Comunque dicono che c’è la crisi ma qui non si vede, tutti i tavoli sono presi. Ma dov’è questa crisi? Al supermercato ci sono sempre persone con i carrelli pieni… Non è vero? ”.
Poi è arrivato il cameriere ed ha servito l’allegra coppia. Quando si è trovata davanti il piatto con pezzi di polipo freddo e smunto, la signora si è alzata, ha preso un coltello e girando velocemente alle spalle del marito l’ha infilzato ripetutamente. Mentre il sangue scorreva e il suo volto si trasformava in quello di una matta con i capelli biondi usciti dai solchi dei fermagli, ha afferrato la forchetta e gli ha cavato gli occhi. Lui è caduto sbattendo la testa e lei ha urlato:
 “Quanto costa questo pesce, ah? Quaaantooo! E quanto costa questo vino? Quaaantooo! E quanta insalata c’è nel frigorifero? Quaaantaaa!”. E via stilettate di tacco dieci nel torace dell’uomo rantolante.
Non è vero. Lei ha detto “Certo”.

Finocchi

«Ma che c’entrano le abitudini sessuali, le pratiche coniugali, le tradizioni, le convenzioni e gli umori con la morte in un disastro aereo? In base alla logica sessuocentrica dell’Arcigay, i giornali e le tv di un Paese come l’Italia, che ha le sue gravi rogne ma è ancora civile e sa tenere lontana la tragedia dalla farsa, avrebbero dovuto involgarirsi, come purtroppo ha fatto l’onorevole Grillini, e dunque indagare e raccontare – “senza ipocrisia” perbacco – quanti, tra i sessantenni a bordo usavano il viagra, e quanti avevano pratiche feticiste, e quanti erano i transessuali e i bisessuali, e ancora quante mogli e quanti mariti ha avuto ciascuna vittima, e quante erano le vergini…».
Lo scrive Francesco Merlo in un editoriale su Repubblica che ha ricevuto, l’indomani, la risposta del nominato Grillini. L’intrico è il seguente. Domenico Riso, lo steward palermitano morto nella tragedia aerea in Spagna, era un omosessuale in viaggio – parrebbe – col compagno e col figlio del medesimo. E se non fosse esattamente così varrebbe la pena lo stesso di ragionarci su, perchè i fantasmi, talvolta, suscitano problemi reali. L’Arcigay, in una nota, ha lamentato la condotta omissiva dei media italiani che – Corriere a parte, in un bel pezzo di Giusi Fasano – non hanno sottolineato il particolare. Merlo ha bacchettato come sappiamo. Perchè questa incursione nel privato? Perchè questo supplemento di informazione? Perchè questa fissazione sui gusti sessuali? Vuoi vedere che proprio l’associazione che rivendica i diritti dei gay è omofobica e tarata dal marchio della diversità a tutti i costi, nel bene e nel male? Mi sembra un utile sentiero di discussione, uno di quei canovacci che indicano il senso di marcia di una società. Insomma, forse non ce ne rendiamo conto, ma siamo davanti a una sottile linea di confine.
Solitamente ammiro la vis polemica di Francesco Merlo che spesso illumina gli angoli d’ombra dell’ipocrisia con la sua lanterna intelligente. Però, stavolta, secondo me – nonostante certi ossessivi isterismi dell’ambiente omosex per cui, talvolta, solo gay è bello – ha torto. Non parliamo di gusti o inclinazioni sessuali, il problema è l’identità sociale, la rappresentazione di qualcosa. Proprio il senso dell’identità per cui padre, madre e figlio periti rappresentano una famiglia (giustamente), mentre poi i giornali usano complicate acrobazie verbali per scrivere di due uomini e un bambino «inopinatamente» insieme. Molti hanno fatto capire tra le righe quello che non hanno avuto il coraggio (?) di dire. Non c’entra l’andare a letto con questo o con quello e scavare tra le lenzuola. Il bersaglio si sposta sul piattello del riconoscimento sociale e si avvicina alla già citata linea di confine. Quando muoiono un uomo, una donna e un bambino, noi li piangiamo due volte. Come individui e come famiglia distrutta, secondo lo specialissimo legame d’amore che li teneva uniti. È possibile lasciare sgorgare identica pietà e identico rimpianto – come singoli e come qualcosa di altro – per due uomini e un bambino, al netto delle barzellette sui finocchi?
Per me sì.

Sangue di gelsomino

Volevo regalarti un gelsomino. Di prima mattina, l’odore delle siepi è fortissimo. Ci sono meno ostacoli tra bellezza e narici. Meno corpi in giro. Meno aromi che si sovrappongono alla verità. Perfino il silenzio è un’opportunità olfattiva in più. Il profumo del gelsomino è arrivato duro e incessante, quasi maleducato. Si è sparpagliato e ha trovato pace. Stavo per stendere la mano. Mi è venuto in mente lui.
In questi giorni, lui ha finalmente ottenuto il permesso di soggiorno. L’ha aspettato per anni. Ha atteso con pazienza georgiana che la burocrazia si muovesse, col solito canovaccio di timbri e di forse chissà, prima di concedergli ciò che era normale. Poi, ha raccontato ai suoi amici qualcosa del suo paese: la Georgia che vediamo in tv, attraversata da una folla scalcagnata di straccioni. Pantofole e povere cose al vento. Carne bruciata. Immagini di vecchie donne rattrappite in un orribile contorcimento.
E dall’altra parte, in una capitale dal nome difficilmente pronunciabile, lo stesso flusso disarmato e sanguinante. Lui ha narrato ai suoi amici il prima e il dopo. I Capodanni con la famiglia che vive ancora a Tiblisi. Le fughe, di notte, con la casa in spalla, per difendersi da ogni tipo di bombe. Per questo ha deciso: tornerà laggiù, nonostante moglie e salvacondotto. Forse si arruolerà.
Ti sembrerà strano. La sua faccia, apparsa in una quieta mattina d’estate, protetta e afflitta dalle solite cose che ci appaiono sconsideratamente letali senza esserlo, ha bloccato la mia mano a un palmo dal gelsomino. Forse non c’entra niente, ma io ora penso che esiste una specie di legame tra quella siepe finora intatta e la Georgia devastata. E che non è lecito versare il sangue innocente di un uomo o di un gelsomino. Né per brama di conquista, né per impazienza d’amore.