L’amore onomatopeico

L’ultima notizia, per via indiretta, era arrivata il primo luglio scorso, al termine di un’escalation di colpi di scena che riguardavano la sua famiglia. Oggi Roberto Torta torna con una nuova rivelazione. (Post sconsigliato ai minori)

Poi l’amore finisce, quello di questa terra intendo, perché quello eterno riposa. Sorvolo sulle frasi che arrivano, in ordine sparso, quando ciò accade.
“Tu sei il solito egoista”.
“Non capisci che io ti ho dato i miei anni migliori?”.
“E quando stavi male, eh? Chi ti ha curato quando stavi male?
“Dimmi che c’è un’altra… almeno dimmi chi questa troia”. Fossi donna, diffonderei il bignami delle cose da non dire. Troia è una parola da evitare rigorosamente. Un uomo alla parola troia ha sempre un brivido.
Io non amo più mia moglie. E non solo perché desidero congiungermi carnalmente con alcune signorine che conosco (e anche con altre che vorrei conoscere), ma perché vorrei sinceramente cambiare vita. Io, che come un equilibrista ho camminato sul filo teso sopra la pazzia mi ritrovo come uomo a volere ardentemente solo un ruolo: essere uomo. 
Voglio essere un uomo che non deve chiedere mai (come quello del dopobarba). Voglio essere un uomo che sa stregare una donna a tempo determinato. Voglio essere un uomo con le palle che arrivano fino a terra, classificazione che personalmente trovo allucinante perché, secondo me, a uno che ha le palle che arrivano fino a terra non resta molto da vivere.
La vita è evoluzione, è crescita, è quella specie di cosa sociale che ci fa preferire l’happy hour a un tramonto, nonostante citare un tramonto sia molto più fruttuoso che portare le patatine al tavolo. I tramonti sono quasi onomatopeici. Tramonto … trombata. Oddio, a pensarci bene più onomatopeico di patatina cosa c’è?
 E poi, diciamolo, è agosto, fa un caldo boia da due mesi e centinaia di ricerche delle università americane, alle quali prima o poi mi iscriverò, dicono che l’uomo è più assatanato d’estate. Ogni giorno ci sono, dati alla mano, ricerche serissime di esimi scienziati che dicono che le donne cornificano di più circa un anno dopo il parto. Ci spiegano con dovizia di particolari che agli uomini piacciono le brune, non fumatrici, con gli occhi verdi, il sedere senza smagliature. Te lo dimostrano con tanto di foto della risonanza magnetica di un cervello di uomo portatore sano di libido. E queste ricerche ci spiegano che c’è un angolo nel cervello di ognuno di noi dove è annidata una pallina piccola piccola. E’ dentro questa pallina che in posizione fetale c’è il maschio con un cannocchiale, che cerca disperatamente di guardare cosa c’è dietro un angolo, per scorgere lei, bella, abbronzata e infinitamente donna.
 E questa pallina nel nostro cervello lo sa: morto un angolo se ne fa un altro.

Anonimo internettiano

Mi è parso di capire che quest’estate, in questo blog, va di moda l’anonimo. E’ un abito sempre più usato. La collezione estiva della vetrina palazzottiana prevede modelli e taglie di ogni genere: anonimo rissoso con sfumature verde biliare; anonimo politico, rigorosamente nero, con cuciture a destra; anonimo rosso-sessantottino con spacco a sinistra; anonimo scollato dalla realtà; anonimo double face per tutte le stagioni; anonimo corto e stringato; anonimo extralarge con evidente tendenza a debordare.
Dato che questo abitino – per tanti comodo – è un successo di stagione e quindi molto trendy, ho provato più volte a indossarne uno anch’io. Devo dire che l’anonimo mi sta un po’ stretto. Però capisco, mettendomi nei panni di chi lo usa, che guardandosi allo specchio in effetti sfila. Anzi, defila…

Lo scrittore liquido

Esco, non indenne, dalla lettura di “Vita liquida”, un saggio di Zygmunt Bauman.
Non indenne, ripeto: e non credo di esagerare. Come tutti i libri nati da un pensiero prezioso e urgente, l’opera di Baumann ti restituisce al mondo alla stregua di un pugile che ha appena perso un incontro contro se stesso: con qualche certezza inutile in meno e tanti utilissimi dubbi in più. Sgombriamo il campo da equivoci. Il sociologo, definito in quarta di copertina come “teorico” (direi meglio: critico) della globalizzazione, è uno studioso serio. Non si veste da giullare né da profeta dell’apocalisse prossima ventura del mondo globalizzato. Non lancia anatemi né la butta giù facile, invocando una comprensibilità immediata e di pronto consumo che, dati la natura e lo spessore della sua opera, suonerebbe come un controsenso. In parole povere, Bauman non è Grillo e nemmeno la Guzzanti. Non punta riflettori sui cattivi veri o presunti né, soprattutto, su di sé. La sua è una luce sottile che, senza sbavature, con la precisione dello studioso e il calore del filosofo, scivola lungo i contorni del Leviatano per svelarne la forma e la dimensione, non le fauci e l’occhio sgranato. Perché lo sguardo critico – fecondo – su una mutazione in atto e in perpetua evoluzione che coinvolge le vite di tutti noi, necessita di serenità più che di paura. Di quest’ultima, abbiamo accumulato riserve abbondanti.
Esco, non lo nascondo, anche un po’ confuso dalla lettura del libro di Bauman. Non tutto mi è chiaro, non sono un frequentatore della sociologia e della filosofia. Ho dei lampi, stralci di idee che mi raggelano. Viviamo in preda a un’eterna insoddisfazione che si autorigenera, che non abbiamo scelto ma che è ormai la ragione d’essere e di sazietà delle nostre vite quotidiane. Compriamo ciò che si vende “perché si vende”. Acquistiamo con il sogno di rottamare l’acquisto appena avvenuto, in vista di una nuova e immediata individualità, costruita sul dettaglio più che sull’insieme. Il nostro “Io” di oggi ha la vita di una farfalla già morta domani, sulle cui ali è impressa la marca di un nuovo oggetto del desiderio, anch’esso dichiaratamente imperfetto nell’attimo stesso in cui cominciamo a desiderarlo. Amiamo tenendo bene a mente che l’amore è un prodotto con garanzia di scadenza. Ci svegliamo con la prospettiva del cambiamento: una compulsione che non prevede approdo, che non contempla sostanza, ma solo una buona scorta di gusci ancora pieni dietro di noi. “Cambiamo perché si cambia”. Il campo d’azione ha poco a che vedere con gli stati, le culture, i localismi. Il ring è molto più ampio: il mondo e i suoi mille fili di ragno che ci rassicurano e ci soffocano. Vale per i rapporti umani, vale per la cultura. Vale pure per i libri.
Prima di scadere in un breviario che non mi compete, vado al dubbio più grande, quello che mi riguarda da vicino. Mi chiedo se abbia ancora un senso illudersi di poter creare qualcosa che duri nel tempo. Qualcosa che aspiri all’universalità in un mondo che ha reso obsoleto questo concetto e anche l’idea del pregio protratto nel tempo. Un mondo che, eliminate le differenze, le distanze, le sorprese, ha smesso di bastare a se stesso.
Mi chiedo se pubblicare un libro significhi riempire una scatola con un marchio, marchiato a sua volta dall’evento che deve accompagnarlo, pena l’oblio.
Mi chiedo, insomma, in quale buca faccia bene a rintanarsi uno scrittore solido. O, più cinicamente, su quale ribalta sia utile apparire allo scrittore liquefatto

La fine dell’estate

Non so se gli odori possano subire lo stesso processo di conservazione delle cose. Forse è così. Restano chiusi in un un ricordo, in un luogo. Ritorni e hai l’impressione di trovarli intatti, o di non averli mai lasciati.
Sono tornato a Isola delle Femmine, dopo un lungo esilio a Mondello, nel posto dei bagni della mia infanzia. Ho noleggiato una sdraio davanti al mare, in un oceano di carne abbronzata. Mi sono spogliato e ho fatto qualche passo sulla sabbia calda. L’odore mi ha sopreso. Era lo stesso di trent’anni fa. E ha seguito la stessa strada di allora. È entrato per il naso, ha girovagato in certe grotte dell’anima sistemate dietro la schiena. È approdato in una zona segreta. L’avevo dimenticata prima che l’odore del mare di Isola tornasse a visitarla. Avevo perduto il paese agrodolce in cui sono stato bambino. La circostanza mi ha provocato un sussulto di gioia, seguito da un soprassalto di malinconia. Come una porta che si apre su una stanza piena di gioielli e si chiude, lasciando appena il tempo stentato di un’occhiata. Non sono un fanatico del passato, non più. So distinguere le pagliuzze di strazio che si annidavano nella luce potente dell’adolescenza, le scorie che tralasci, quando cominci a pensare, sbagliando, che tutto fosse perfetto. E invece non lo era. Nemmeno il mare. Eppure, quell’odore sprigionato all’improvviso, quasi uscito da una lampada di Aladino sepolta sotto la sabbia, ha toccato una corda profonda.
E ho ricordato, con le emozioni più che con la ricostruzione della memoria. Ho ricordato il brivido dell’acqua gelata sulla schiena, le meduse, i gabbiani, i castelli di sabbia. Ho ricordato mio padre che solo nel mare trovava la sua pace completa. Nuotava fino a raggiungere il largo. Fino a diventare un puntino d’ombra nel blu. Io e mio fratello respiravamo di sollievo, nel vederlo riapparire, vivo e vicino. Poi, mio padre faceva il morto. Noi ridevamo. Non sapevamo che, in un altro giorno di un’altra estate, il morto l’avrebbe fatto davvero.

Il bigliettino

Il bigliettino mi è passato tra le mani per caso. Era in un vecchio ufficio polveroso e chi lo custodiva, come una reliquia, mi ha vincolato al silenzio sul resto. Appena un cartoncino rettangolare. C´è ancora scritto: «Giovanni, sei la cosa più bella della mia vita. Francesca». Una piccola lettera d´amore inviata a Giovanni Falcone da Francesca Morvillo. L’ho rigirata tra le dita. Per un attimo, ho smesso di guardare il volto della memoria del magistrato integerrimo, tutto di un pezzo, di granito e ferro. E ho pensato che Giovanni Falcone e Francesca Morvillo erano (anche) due teneri innamorati.
La scoperta ha scavato in me un´ulteriore profondità del senso di perdita.
È atroce soffrire la strage di un simbolo grande dello Stato, degli uomini che lo proteggevano ed erano con lui per conto dello Stato, della donna che gli stava accanto e che pure dello stesso Stato faceva parte. E’ insopportabile assistere allo strazio dell´amore. Riconoscere la strada spezzata dalla polvere dell´esplosione. Piangere su un sentiero interrotto dalla crudeltà. Le statue possono essere disgregate dai colpi di martello, non perderanno il vigore del marmo, per quanto dissolte. La carne che cede comunica un senso di fraterna pietà, di riconoscimento intimo.
Il suo amore. Il mio amore. L´amore di tutti. Un´unità di misura che avvicina e racconta meglio. Giovanni e Francesca, non più due monumenti lontani, circonfusi di gloria, nel cielo degli eroi della Repubblica. Non soltanto, questo. Giovanni e Francesca, i baci, le mani che si intrecciavano, gli occhi che sorridevano.
Per sempre riuniti nella resurrezione della carta.

Il balconcino del nevrotico

Ci sono periodi in cui sento il bisogno di staccare i fili. Mettere fuori posto il telefono che mi collega con il mondo e sedermi per un bel viaggio nella mia personale macchina del tempo. Nello specifico, la macchina si compone di un divanetto piazzato di fronte al balcone dello studio dove ho arrangiato una mini-foresta che, in materia di innesti, farebbe la gioia del dottor Frankenstein. Vi si contemplano nell’ordine: un gelsomino cinese costretto a difendersi dalle spine di tre varietà di cactus; un ficus avvolto dalle spire pellicciose di un abete nano (ho deciso di chiamarlo così: su internet non vi è traccia di qualcosa che gli somigli); una lantana che appassisce e resuscita ogni due giorni; un alberello di ulivo ipertrofico e un oleandro convalescente che, reduce da un assalto di pidocchietti verdi, ha preso slancio e, come per ripicca, minaccia di invadere l’appartamento del piano di sopra. Vedendomi armeggiare ogni due giorni con flaconi di concime liquido, sangue di bue e innaffiatoio (ho l’ansia di accelerare il rigoglio della mia piccola Amazzonia), mia moglie ha parlato di “balconcino del nevrotico”.
Non ha tutti i torti. Le piante, oltre che bellezza, mi regalano un senso di protezione. Formano una barriera non invadente tra me e la città oltre la ringhiera. Dalla mia postazione sul divanetto, mi offrono una versione della realtà ormai passata di moda. Rami invece di antenne. Cortecce e steli sugosi al posto di cavi schermati. Cupole di fogliame contro antenne paraboliche. Fruscio di boschetto in sostituzione di trilli di cellulare. Di tanto in tanto, arriva persino un pettirosso maleducato: ha deciso che la terra dei miei vasi è la più saporita del circondario e, becchettando in cerca di Dio sa che cosa, ne semina una buona metà sulle mattonelle. Lo lascio fare. In un viaggio nel tempo come si deve, un volatile in piume e ossa – non di quelli a batteria che gli ambulanti cinesi ti fanno cinguettare sotto il naso al ristorante – ci sta benissimo.
La mia crociera proustiana da fermo contempla anche il silenzio – fra le due e le tre del pomeriggio se ne trova ancora – e, più spesso, la musica. Metto su Morricone (il Morricone meno frequentato, quello à la Cage dei primi tre film di Dario Argento, e i Goblin, o qualcosa di Robert Wyatt, oppure di Emerson Lake & Palmer). A basso volume: deve essere un bisbiglio. Mia moglie, facendo capolino, mi dice che le sembra di entrare in una cinquecento degli anni ’70 con lo stereo otto a pieni giri.
Non ha tutti i torti nemmeno in questo caso. La mia macchina del tempo fa spesso sosta da quelle parti, nell’ultima zona della memoria in cui ritrovo un pallido ricordo di cose che non ci sono più. Il libero esercizio della solitudine, senza l’assillo di un telefono indispensabile anche quando non serve a nulla. La televisione che va a letto presto. Nicoletta Orsomando era in bianco e nero, la realtà a colori. Youtube? Un accessorio idraulico di marca inglese.
Oggi, sul Corriere online, leggo almeno tre notizie di denunce che hanno a che fare con la violazione della vita privata di persone più o meno famose, e più o meno dello stesso tenore. La più indigesta è quella che riguarda una potenziale miss Italia, rovinata dagli scatti di un fidanzato vendicativo che ha diffuso su internet istantanee della poverina seminuda, ignara, nell’atto di farsi la doccia. Insomma, un po’ come alzare a sorpresa la serranda e offrire pelle e vergogna di una persona in pasto a un vicinato abnorme, composto da qualche milione di dirimpettai arrapati.
Con un paio di lantane e un gelsomino cinese di mezzo, avrebbero semplicemente litigato.

Corpi

Questi due corpi mi sono venuti addosso a tradimento. Il sorriso della ragazza sfolgorava ancora vivo dal giornale, nonostante le mille interazioni tipografiche che sempre tradiscono il nucleo di un sorriso o di un ultimo sguardo. Eluana si chiama. Nome intinto nell’acqua. Scioglimento del groppo. Suono di mano che accarezzi la schiena, fino alla redenzione dei peccati di ogni spina dorsale. Eluana, dolcezza di luna. Si chiama o si chiamava? E qui il mio trasalimento si è congelato nella ghiacciaia di un enigma. Eluana, lo spirito che abitava un corpo e che lo ha momentaneamente abbandonato (forse) almeno nelle sue evidenze, da quando la carne è attaccata al respiratore artificiale e il fiato è un lumino rosso, nella notte del coma. Sapete tutti come è la cronaca e cosa ha detto il giudice. Sapete tutti come la pensa il padre di Eluana e come la pensa il padre dei cattolici. Scontro di padri in cui non voglio entrare, perché risulta immane per le povere forze di questa mia mattina d’estate. E perché, nel mio piccolo, mi occupo abbastanza di cronaca, per mestiere. Dunque, quando il mio sorriso e il mio corpo si liberano dalla veste tipografica che li definisce e li circoscrive, posso tentare di vendicarmi delle parole di superficie, scrivendo a caccia del senso. Per ora il senso non c’è, non lo trovo. Lo annuso in quel sorriso. Mi sfiora come il racconto della luce per un cieco. Lo perdo, nell’attimo stesso in cui spero di averlo reso docile alle mia dita e alla mia comprensione.
C’è un altro corpo qui. Qualcuno ha passato nel sistema del pc del giornale la foto di una donna vista dall’alto. Le spalle poggiate su una terra che, dalla visuale, somiglia a un cielo polveroso di contorno. Gli occhi chiusi e imbrattati da quella stessa polvere. Una scarpa sfilata, smarrita in una lontananza non riconducibile alla via di casa. La foto di un suicidio. Il senso comincia ad apparirmi un doppio controsenso. Eluana che se n’è andata e ha lasciato il suo vero sorriso in pegno, per raccontarci che il corpo che altri tengono a forza di braccia qui non è suo. Quando si dissolve il crocevia misterioso che tiene uniti i nostri irriducibili lineamenti, il corpo non c’è più, la vita non c’è più. Anche se c’è il respiro. Dall’altra parte, il disfacimento. Tutta la retorica eroica del suicidio riassunta in due occhi ammaccati e pesti, in una scarpa sfilata, in un cielo di polvere. Il sorriso di Eluana, la scarpa di una Cenerentola senza nome. Falene che danzano in questa mia estate, intorno alla luce accecante e invisibile del senso. Condannate a bruciarsi, sfrigolando, se si avvicinano troppo.

Sarà capitato anche a voi…/3

Molti di voi si sono chiesti, e mi hanno chiesto, che fine hanno fatto Roberto Torta e la sua saga familiare. Fino a ieri ne sapevo quanto voi. Poi mi è arrivata un’e-mail da una gentile signora, di cui ometto le generalità, ma la cui qualifica è più che esplicita. Ricevo e pubblico, con tanto di colpo di scena.

E’ successo tutto in un attimo. Perché, in fondo, tutto succede in un attimo. Roberto era andato in bagno. Il pc portatile era acceso, collegato alla adsl. Sullo schermo ho visto una foto sulla destra, “Gery Palazzotto”, la scritta “Torta in faccia” in centro. Ho iniziato a leggere e adesso tocca a me. Sono la moglie di Roberto Torta. Sono quella sorta di donna fantasma che ha portato Giusy in casa. Sono quella donna che guarda gli occhi di suo marito attaccati alle alte e giovani natiche di Giusy. Sono quella donna che ha dormito con lui mentre lui voleva dormire da solo. Sono quella donna che non conosceva questo blog in cui mio marito non manca mai di commentare con un’ironia che non manifesta mai a casa. Sono quella donna che lava e stira le mutande a questo grande uomo che corteggia la signorina Jana e ogni altra donna, qui. Qui, in un blog. Figuriamoci cosa combina nella vita…
Questo uomo non trova di meglio da fare che dare in pasto agli altri i fatti suoi. Questo uomo vorrebbe tanti inizi e invece si ritrova una moglie con cui non ha niente da iniziare, se non un film in dvd o il sudoku. Ecco, scusatemi, ma ho una cosa da comunicare a mio marito.
Amore, tesoro, qualche domenica fa al bar con Giusy, ci sono venuta per il tuo amico Giulio, non per te. Il tuo amico Giulio, da cinque anni, colma tutte le falle che tu hai provocato. E non aggiungo altro.
P.S Già che ci sono, la piccola Giulia non ha più i baffi. Le hanno fatto la ceretta.
P.P.S. Stronzo.

3. fine

La casetta bianca

Con questo articolo Roberto Puglisi, giornalista e infaticabile sostenitore della grandezza dei minuscoli, inaugura la sua rubrica. Molti di voi lo conoscono già e non potranno che apprezzare. Agli altri porgo l’invito per una lettura non qualunque.

di Roberto Puglisi

Immaginate un prato pieno di fiori. E, nel prato, una casetta bianca. È l’incipit di Pierino e il lupo, per come lo ricordo io. Nell’edizione che posseggo, il narratore è Eduardo De Filippo. Pronuncia la frase iniziale con una lieve inflessione napoletana. Una schiumatura di caffè, zuccherato come piace a me.
L’esordio dell’opera di Prokofiev mi è venuto in mente leggendo la storia di tre fratelli matti di Misilmeri. Una sorella è morta, gli altri due si sono asserragliati in una casa colma di rifiuti per evitare che quelli dell’ambulanza prelevassero il cadavere. Mi è tornato alla memoria Eduardo per contrappasso, per la discrepanza tra la cronaca e il sogno. Erbacce incolte (un prato pieno di fiori), una catapecchia (una casetta bianca), popolata da strani fantasmi, rischiarati dal lume della loro follia (lì dentro ci abita un ragazzo. Si chiama Pierino). È bastato rovesciare la trama delicata che precede la musica nel disco, per avere davanti esattamente quello che il Giornale di Sicilia narrava, in un bel pezzo scritto da Antonella Folgheretti. Ho sentito l’ansimare degli altri due fratelli – un maschio e una femmina – che scoprono il corpo della sorella Caterina. Poi si chiudono dentro. Arrivano quelli dell’ambulanza e vengono respinti. Arrivano i carabinieri. La catapecchia viene cinta d’assedio. Non è la prima volta. Quarant’anni fa la stessa famiglia si barricò per evitare il ricovero di un congiunto in un ospedale psichiatrico. Elettrificarono la porta e spararono – si dice – un paio di fucilate. Stavolta si sono limitati all’essenziale, perchè l’esperienza insegna qualcosa a tutti. Hanno sbarrato l’ingresso. Un fratello ha brandito una pistola, come dissuasore. Un cane da discarica abusiva ha ringhiato agli assalitori. In tre circondati dal mondo, da quel paese che li chiama “i morti”, che ride, quando passano, che non ha mai guardato nei loro cuori, oltre il velo della malattia, perchè è difficile, se non impossibile, riuscirci. Perchè mai avrebbero dovuto lasciarlo entrare? Si sono difesi, fino a sera. Hanno custodito la sorella che non volevano abbandonare neanche al cimitero. Hanno lottato con la forza della pazzia, fino all’irruzione dei carabinieri. Si sono battuti per sovrumano, lercio e incomprensibile amore. Forse avevano tanto da proteggere. Forse vedevano tutto intorno un prato pieno di fiori. E, nel prato, una casetta bianca.

In morte di un raccontatore

Dino Risi è morto. Non sto qui a fare un’esegesi dettagliata della sua filmografia: rischierei l’imprecisione, la pedanteria o, peggio ancora, la riesumazione di atti dovuti e mai concessi che non sopravviveranno al valore dell’opera nella sua totalità, come sempre accade quando ci si trova di fronte al lavoro di un artista completo e complesso. Ma cristallino nella sua semplicità: la vera la dote dei veri narratori. Risi è un regista che meriterebbe una materia a sé nei programmi scolastici dedicati alla storia degli ultimi cinquant’anni del nostro paese. Chi vuole approfondire, chi non l’ha ancora fatto, vada in una videoteca e compri tutto quello che porta il suo nome, senza fermarsi a “Il sorpasso” oppure a “Una vita difficile”, chiedendo notizie anche de “Il Gaucho”, magari, o di “Primo Amore” o, ancora, di “Straziami ma di baci saziami”. Insomma, faccia da sé, come è giusto che sia. Io mi limito a dire che con la scomparsa di Risi si assottiglia l’ormai esigua lista di personaggi dei quali un’Italia anodina anche a sinistra – incline a toccarsi l’uccello con l’orlo della camicia, più attenta alle tessere di partito e agli intellettualismi che alla sincerità di un talento puro, scintillante – ha troppo a lungo rinunciato a essere orgogliosa. Parlo dei personaggi che sapevano raccontare come se respirassero. Parlo dei personaggi che provocano fastidi e pruriti con il loro complicatissimo candore. Parlo dei personaggi che è stato e sarà bello ascoltare anche nelle interviste, per sempre, perché da raccontare avevano tanto, e lo facevano in ogni occasione, senza perdere un grammo di stile, arguzia e sincerità. Parlo di personaggi che non facevano sconti a nessuno, e soprattutto a se stessi. Ecco come mi piace ricordare, da umile spettatore, il regista, il sottovalutato, lo sminuito Dino Risi: un grande raccontatore italiano. Prova ne sia che lo si è capito solo in articulo mortis.
Dino, a me e a moltissimi piacevi anche prima.