Ho divorato anche la seconda stagione di Stranger Things. E, pur scontando un affievolimento dell’effetto sorpresa (è il destino delle seconde volte, dal sesso alle conquiste sportive, dall’arte ai vizi), l’ho trovata magistrale nella scrittura e nella realizzazione. Matt e Ross Duffer hanno confezionato un prodotto di altissima qualità partendo da ingredienti semplici: mostri, fantascienza, bambini, favola. Ecco, il segreto di Stranger Things (1 e 2) sta nell’abilità degli autori a tenerti incollato dinanzi a eventi che, nella loro sostanza e senza il “condimento” del genio di chi regge le redini della storia, strapperebbero sbadigli al primo quarto d’ora. È come se a un certo punto non te ne fregasse niente (tranquilli, niente spoiler) di come sia nato tutto e di come andrà a finire, e dovessi solo soddisfare il tuo bisogno di restare con quei personaggi, quasi tutti bambini, quasi tutti bravissimi. Così, tanto per non interrompere un incubo che è dolce come un sogno, tanto è finzione manifesta con incantevoli mostri grotteschi e scenari che sembrano fumetti della Marvel.
Merito della scrittura, dicevamo, ma anche del cast, non a caso Stranger Things ha vinto lo “Screen Actors Guild Award 2017” per il miglior cast in una serie drammatica: la credibilità di un attore bambino si misura non sulla sua capacità di recitazione, ma su quella di saper rimanere bambino in un gioco da grandi.