Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.
C’è un video che dura un minuto e quattro secondi in cui si raccontano la lunga storia della malvagità dell’uomo e la breve vicenda di due ragazzi che si appartano per fare l’amore. Scena: parcheggio ben illuminato e videocontrollato del centro commerciale “La Torre”.
Il giovane e la sua fidanzata amoreggiano tra le macchine. Talmente presi da non accorgersi della telecamera che li spia e soprattutto del cartello “area videosorvegliata” a pochi metri da loro. La tecnologia non ha sentimenti e rinvia le immagini ai monitor dei vigilantes che, anziché farsi una risatina, tirano fuori un cellulare e riprendono tutto. Da lì un effetto domino, in cui si alternano tessere di incultura e tessere di cattiveria, provoca la diffusione rapidissima del clip.
Per istinto l’opinione pubblica dà la colpa al web, con quella grottesca ansia liberatoria di trovare un capro espiatorio universale, maneggevole e possibilmente inanimato: accusare alla cieca è un buon metodo, che non passa mai di moda, per non accusare nessuno. Internet, whatsapp, i social network finiscono per essere recensiti come luoghi di perdizione, senza confini senza regole senza manco un orizzonte visibile, che rovinano la vita delle persone perbene, anche se un po’ imprudenti.
E poco importa se il male è fuori. Se è nel dito e non nel tasto, nel ghigno e non nel mouse. Se è nei commenti di quei vigilantes maschi che nella loro sguaiataggine riescono a essere persino meno miserabili della loro collega femmina, feroce contro le forme abbondanti della ragazzina nel video.
Il sesso che Internet ha brandito come simbolo di libertà — altro che figli dei fiori! — spalmandolo ovunque senza permesso e senza ritegno, ricade come dardo acceso nei canali infiammabili della comunicazione non ufficiale e globalizzata. Non importa chi sei, importa piuttosto chi non sei: una persona qualunque colta in un momento di umana debolezza, una ragazzina in età scolare che proprio in quanto ordinaria merita un’ignobile amplificazione dei suoi errori. (…)
Il web è quindi il mezzo attraverso il quale si perpetra il delitto, ma anche quello mediante il quale giunge un inusitato castigo. Chi ha realizzato quelle immagini, infatti, non solo merita la pena che la legge prevede, ma deve essere consegnato alla storia imperfetta dei perfetti imbecilli: come pensava di farsela franca uno che riprende una scena simile da una postazione ben identificabile e soprattutto con data e ora perfettamente visibili sullo schermo? Non si può chiedere a costui di leggere Fëdor Dostoevskij, anche se sarebbe una soluzione di sublime sadismo letterario, ma lo si può stimolare sul concetto di salvezza mediante la sofferenza: toglietegli lo smartphone, radiatelo da whatsapp, decapitate il suo account Facebook, oscuratelo su Twitter. Sarà peggio di una qualunque condannuccia che comunque non sconterà mai. Chi vive di pochezze soffre il ritorno alle questioni di sostanza. Poi magari vedete che faccia fa. E postatela su Instagram.