La lettera di Roberto Saviano, ieri su Repubblica, ha liberato in me una serie di pensieri che covavano da giorni. Su questo blog abbiamo discusso più volte di Gomorra e gomorrismo, accennando alla situazione oggettivamente incredibile di uno scrittore che vive blindato, strattonato dalla sua scorta per gli allarmi che si susseguono.
Quali che siano i meriti della sua opera, Saviano è un’antenna che deve restare ben dritta senza che malefici colpi di vento non dico la abbattano, ma ne determinino lo spostamento. Nel suo sfogo, lo scrittore racconta di voler cambiare nazione per tentare l’impresa di una vita normale. I maligni possono obiettare: il successo spalanca portoni e chiude qualche porta.
Ma il caso di Saviano è diverso. Semidio, guru, star, oracolo, vip che sia, un artista deve poter frequentare liberamente tutte le stanze della propria fantasia. Il che significa che deve necessariamente passeggiare, schivare (se vuole) i fotografi, guardare un tramonto, innamorarsi, scherzare, farsi moderatamente del male, confrontarsi con gli altri, avere una casa… Altrimenti è un ostaggio chiuso in una piramide di carta – la carta dei suoi stessi libri – dalla quale è quasi impossibile evadere persino col pensiero.
E’ vero, il mito dell’eroe imbronciato e scortato ci ha consegnato un personaggio bifronte: affascinante o antipatico, invidiato o detestato, coraggioso o parolaio. La critica letteraria e il pubblico si sono divisi (in parti non uguali) tra chi accenderebbe il rogo e chi il cero votivo.
Credo che Saviano sia, in questo momento, vittima di un’immensa ingiustizia. La criminalità (che non soltanto attecchisce nell’ignoranza, ma ne genera a sua volta) non deve condizionare la vita di nessuno, men che meno quella di uno scrittore, che è un anticrittogamico contro il non sapere. A Roberto Saviano deve essere garantita la stessa libertà elementare di cui godiamo noi comuni mortali. Solo così il semidio può rimanere sull’altare o essere tirato giù: con la forza del giudizio sulle sue opere.