Non so se gli odori possano subire lo stesso processo di conservazione delle cose. Forse è così. Restano chiusi in un un ricordo, in un luogo. Ritorni e hai l’impressione di trovarli intatti, o di non averli mai lasciati.
Sono tornato a Isola delle Femmine, dopo un lungo esilio a Mondello, nel posto dei bagni della mia infanzia. Ho noleggiato una sdraio davanti al mare, in un oceano di carne abbronzata. Mi sono spogliato e ho fatto qualche passo sulla sabbia calda. L’odore mi ha sopreso. Era lo stesso di trent’anni fa. E ha seguito la stessa strada di allora. È entrato per il naso, ha girovagato in certe grotte dell’anima sistemate dietro la schiena. È approdato in una zona segreta. L’avevo dimenticata prima che l’odore del mare di Isola tornasse a visitarla. Avevo perduto il paese agrodolce in cui sono stato bambino. La circostanza mi ha provocato un sussulto di gioia, seguito da un soprassalto di malinconia. Come una porta che si apre su una stanza piena di gioielli e si chiude, lasciando appena il tempo stentato di un’occhiata. Non sono un fanatico del passato, non più. So distinguere le pagliuzze di strazio che si annidavano nella luce potente dell’adolescenza, le scorie che tralasci, quando cominci a pensare, sbagliando, che tutto fosse perfetto. E invece non lo era. Nemmeno il mare. Eppure, quell’odore sprigionato all’improvviso, quasi uscito da una lampada di Aladino sepolta sotto la sabbia, ha toccato una corda profonda.
E ho ricordato, con le emozioni più che con la ricostruzione della memoria. Ho ricordato il brivido dell’acqua gelata sulla schiena, le meduse, i gabbiani, i castelli di sabbia. Ho ricordato mio padre che solo nel mare trovava la sua pace completa. Nuotava fino a raggiungere il largo. Fino a diventare un puntino d’ombra nel blu. Io e mio fratello respiravamo di sollievo, nel vederlo riapparire, vivo e vicino. Poi, mio padre faceva il morto. Noi ridevamo. Non sapevamo che, in un altro giorno di un’altra estate, il morto l’avrebbe fatto davvero.