Se l’hai scritto, va stampato?

Per qualche anno ho fatto l’editor. Tradotto per chi non mastica gli inglesismi: ho valutato, rifiutato, accettato e sgrossato romanzi altrui, oltre che scervellarmi con la miriade di piccole e grandi cure che questo lavoro comporta. È un’attività che svolgo ancora, da libero professionista, anche oggi che ho abbandonato la casa editrice con la quale collaboravo.
Mi piace. L’editing ti riconcilia con la parte meno fumosa del processo letterario. Da scrittori, si filosofeggia e ci si tuffa nella sala d’attesa di uno psicoterapeuta. Da editor, si diventa massaie del foglio scritto, ci si butta nell’economia domestica delle parole e si taglia via il superfluo. Ci si sporca d’olio e di grasso.
Vi suona prosaico? Fa parte della professione. E non finisce qui.
Immaginate che il romanzo sia un’auto d’occasione o – nel migliore dei casi – da collezione. Sperate di venderla. L’editor è l’omino armato di cacciavite cerca-fase che verifica lo stato della carburazione e i falsi contatti. Vi dà o vi nega il tagliando per entrare in casa editrice e uscirne pronti per lo scaffale della libreria. Davanti a freni difettosi o carrozzeria malconcia ma a fronte di un buon motore, l’editor si rimbocca le maniche, prende la cassetta dei ferri e s’impegna a fargli passare la revisione. Ha dovere e diritto di giudizio, poco tempo per le carezze, ancora meno per gli impacchi all’ego ferito dell’aspirante autore e, in questa veste di missionario crudele, può essere la figura più amata o più odiata del mondo letterario. Per un motivo principale: rappresenta l’unità di misura delle mille difficoltà che un romanziere deve affrontare prima di definirsi tale e che un romanzo deve superare prima di meritarsi un codice isbn. Storie ingolfate, dialoghi ingenui, situazioni “telefonate”. Sempre più prosaico? Devo esserlo.
Decidere di scrivere un libro è nobile. Riuscire a metterlo nero su bianco è ammirevole. Farlo bene è quasi sovrumano. Rendersi conto che, nel novanta per cento dei casi, non funziona comunque e che bisogna riscriverlo, è divino. Il peggio che possa capitare a un editor nell’onesto svolgimento delle sue funzioni è un autore che non accetta l’idea della revisione, che si sente violentato nella sua integrità artistica da quella preziosa, fondamentale pratica di alto artigianato che è l’intervento di editing. Una persona così vive fuori dal mondo. Non sa che cosa è una casa editrice – gente che produce libri per venderli – non si rende conto che nessuno è disposto a comprare e consigliare un cavallo zoppo solo in virtù di un presunto blasone artistico, e commette il peccato mortale degli scrittori: la rinuncia a imparare dall’esperienza e, soprattutto, dagli errori. Da stamattina, sulla homepage di Repubblica si pubblicizza una novità vecchissima. Lo slogan dell’iniziativa è: “Se l’hai scritto va stampato”. Le case editrici a pagamento esistono da sempre, ma di questo si tace, anche se il meccanismo è lo stesso: sborsi una somma, invii la tua opera, e dopo qualche giorno ti torna a casa in volume. Non si fa cenno, nella pubblicità, né a editor che revisionino il testo in questione né alle possibilità – nulle, in questo caso – di distribuzione del libro. Ecco scavalcati, in nome del “fai da te” e dell’inflazione dell’io velleitario, due passaggi cruciali dell’editoria degna di tale nome, quella che gli scrittori li pettina, li paga e li fa circolare. Proponetelo agli editori veri, il vostro libro. Se c’è del buono, qualcosa prima o poi accadrà, ve lo giuro. E in caso contrario, loro saranno i primi a dirvi una verità inconfutabile: se l’hai scritto, non è per niente detto che meriti di essere stampato.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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