Il menestrello

Era una primavera di sei anni fa, forse aprile inoltrato. Una pizzeria e un tavolo di tutte donne all’aperto, una Catania con le strade non ancora sfregiate.
Era l’addio al nubilato che la mia amica Giulia aveva voluto organizzare a suo modo: senza glamour ma rigorosamente senza uomini. Tutto fila liscio sino a quando arriva lui, un amico di Giulia. Passa lì per caso, con annessa chitarra. Ha l’aria del bello e maledetto. Si siede ed ordina la sua pizza come se fosse la cosa più naturale del mondo. Poco male, è simpatico e pure colto, che rimanga pure.
La serata scorre bene sino a quando il tipo, che apprendo essere un aspirante prof d’Italiano ingiustamente trombato allo scritto del concorsone nazionale, concentra la sua attenzione su di me. Due chiacchiere brillanti e poi la domanda, fatidica: che lavoro fai? La giornalista. Ma una giornalista vera? Giulia interviene tessendo le mie lodi professionali. Il menestrello (nei nostri amarcord io e Giulia lo chiamiamo ancora così) sbianca di colpo. E attacca. “Voi giornalisti scrivete ma non siete scrittori”. Io non lo nego, anzi. Ma lui s’infervora ugualmente, provoca, vuole vedere il sangue che scorre e la serata rischia di animarsi troppo. Io guardo Giulia. Proprio non si merita che il suo addio al nubilato venga ricordato per una memorabile litigata. Così vado contro la mia natura e non tiro fuori le unghie. Subisco tutti i possibili luoghi comuni, e non sempre veri, sul mio mestiere.
Mi è capitato di incontrarlo più volte, il menestrello, e si è sempre girato dall’altro lato.
In tutti questi anni non ho mai smesso di pensare a quella serata. Oggi che Giulia ha felicemente rodato il suo matrimonio sarei finalmente in grado di dire due o tre cose al suo amico prof. Nell’attesa di incontrarlo di nuovo (e succederà) scrivo qui quello che penso.
Molti giornalisti si affrettano a rimarcare ai loro allievi che la letteratura è bandita dal mestiere di cronista.
Il perché è chiaro: il buon cronista descrive il reale, lo osserva, in taluni casi lo svela o addirittura lo spiega, ma non lo inventa. Il bravo scrittore può anche attingere alla realtà che lo circonda, ispirarsi persino a quella già trascorsa o alla realtà che non è mai stata, ma è come un bambino che disegna l’idea, (i tedeschi direbbero Vorstellung), che si é fatto delle cose, non la visione che gli viene rimandata attraverso i suoi stessi occhi. Ma azzardo un altro ragionamento, anche perché mi sono fatta un’idea della creatività come congiunzione di nuovo e di utile.
Sono molti i racconti o i romanzi in cui si entra all’istante – per la felicità del lettore- nella situazione narrata, anche quando questa è fantastica, futuribile, ignota.
In questi casi ne ammiriamo la creatività, la potenza evocativa delle immagini che dal foglio passano dritte alla nostra mente, qualche volta alla nostra anima.
Eppure, anche nelle buone inchieste giornalistiche – sia scritte che filmate- conta ciò che possiamo chiamare “l’ingresso” nella storia. Poi il bravo giornalista accompagna il lettore (o lo spettatore) per mano, rigo dopo rigo, o fotogramma dopo fotogramma, dentro una realtà che pochi o nessuno avevano avuto la voglia o il coraggio di descrivere. Non il coraggio di narrare, ma di svelare nella sua cruda, e a volte devastante oggettività.
Qual è il filo creativo che annoda i due linguaggi?
E’ di moda citare Calvino, Lo faccio anch’io. Nelle sue Lezioni americane, quando discorreva di visibilità, Calvino si riferiva al “pensare per immagini” e accomunava le “realtà” così come le “fantasie”, al loro saper prendere forma attraverso la scrittura. Per lo scrittore le visioni polimorfe degli occhi e dell’anima si trovano contenute in righe uniformi di caratteri minuscoli o maiuscoli, di punti, di virgole, di parentesi.
La visione ha un’importanza fondamentale e primaria e presiede al pensiero visivo. E se il “creare” immagini dal nulla è creatività dello scrittore, il coglierle nella realtà, acchiapparne l’essenza, la complessità in un taccuino o nei pixel di una telecamera digitale, è la missione di un buon cronista.
Tutti scrittori, dunque? No. Come non tutti sono giornalisti, per quanto ne dicano i guru del citizen journalism. Ma in mezzo ai due mestieri c’è l’uomo, che è l’essere dello sguardo.
Ecco è questo che vorrei dire al menestrello. Ora mi sento più leggera.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *