Sospettate pure che io ce l’abbia un poco con i miei conterranei: non mi affaticherò più di tanto per smentirvi, né vi chiederò di perdonarmi. Ce l’ho anche con i nostri connazionali, quindi pari e patta. Oggi mi infervoro così: in Sicilia i vezzi sociali, linguistici e di costume ci arrivano in ritardo. E male. Il postino che fa le consegne dei modi di fare e di dire pubblicizzati in tv e impacchettati a Roma o a Milano, non è mai in orario – questioni di distanza, difficoltà logistiche, ah, il ponte di Messina, Silvio! – e a volte può metterci mesi e anni prima di sbalordirci con articoli dei quali spesso sarebbe meglio fare a meno. Così la consegna ci coglie impreparati. Diffidenti. Poi desiderosi di spacchettare l’involucro, appropriarci del contenuto e usarlo di più e meglio dei nostri predecessori che ce l’hanno inviato. Riscaldiamo la derrata scaduta, ne facciamo scorpacciata, la storpiamo con ricette di fantasia. Esageriamo. È nelle nostre corde, d’altronde. Prendete il boom dell’uso della cocaina, la droga dei manager. I primi rampantini palermitani con la narice arrossata e il piatto di Sushi per inappetenti si sono visti quando ormai le acque del Po e del Naviglio erano infestate da urine tossiche di caratura doc, ventennali. Bisognava recuperare. Farci valere. Peccato non avere nell’Oreto acqua sufficiente a riempire una provetta. Suppongo che il nostro fiumiciattolo, oggi, riserverebbe sorprese da far impallidire un Veronesi. Passando a fatti più frivoli: più di venti anni fa mi regalai un viaggio a Roma, ad agosto, da solo. Ero un ragazzino, rimasi estasiato dai ponti, dalle fontane dell’acqua Marcia, dai riflessi del pulpito dorato in San Pietro, dalle atmosfere Argentiane dei sotterranei della metro e delle geometrie cespugliate di Casalpalocco. Ma una cosa più di ogni altra mi sconvolse. A Roma si davano del “tu”. Tutti. Vecchi e giovani. Per strada, nei negozi, con tono rilassato, quasi giocoso. Eccitato e un po’ scandalizzato, lessi la mia scoperta come una dimostrazione di disinvoltura capitolina. Era per me una specie di rivoluzione linguistica, eredità di un sessantotto che da noi era solo passato senza salutare; un provvido colpo di piumino alle convenzioni stantie che in Sicilia, invece, resistevano. Avevo meno di vent’anni, appunto. Pregai che il fenomeno contagiasse anche Palermo. Tu. Senti. Prendi. Tieni. Dammi. È successo ora, che di anni ne ho quaranta. Mi prendo ogni giorno un “tu” dalla cassiera diciottenne del supermercato. E confesso che mi dà fastidio. È più forte di me: il “tu per tutti” palermitano non mi suona disinvolto. Ha un che di forzato e, invariabilmente, aggressivo. Di rado è accompagnato da un sorriso. Più spesso ha il rumore di un inceppo linguistico, di una convenzione con la quale non si è ancora scesi a patti. Ti arriva quasi sottovoce, oppure smozzicato a sguardo basso, come se chi lo pronuncia stesse compiendo un furto o un atto di rivalsa pretestuoso. Fateci caso, sappiatemi dire. Il “tu” senza amicizia, in fondo, torna a essere quello che è: un’appropriazione indebita di intimità, una rivendicazione infantile di superiorità. Sarà la solita esagerazione palermitana. Sarà che sono invecchiato. O sarà che devo cambiare supermercato, commessa e organizzarmi un altro viaggio a Roma. Dove magari, nel frattempo, è tornato di moda il “lei”.