Salvatore Lo Piccolo, erede del boss Provenzano, finisce in trappola. E mentre gli agenti della sezione Catturandi della squadra mobile di Palermo lo arrestano, suo figlio Sandro gli grida “Papà, ti amo”. Il dettaglio non passa inosservato. Primo, perché il giovane è un criminale con un ergastolo alle spalle e, pure lui da latitante, partecipava con il padre a un summit di mafia. Secondo, perché ci catapulta nei meandri, difficilmente esplorabili, della razionalizzazione dei sentimenti. L’amore di un figlio verso il padre non può essere messo in discussione, è uno di quei sistemi assoluti che può condurre con uguale forza alla felicità come alle nefandezze più impensabili. E’ tutto e troppo, è completezza e annientamento, biologia ed assioma. Nel grido del trentenne Sandro c’è, molto probabilmente, amore vero, incondizionato. Ciò non fa di lui una persona umanamente meno peggiore rispetto a ciò che la sua fedina penale ci racconta. Amare, come sappiamo, non dà patenti né costituisce attenuante. E’ il contesto nel quale questo sentimento si dispiega che, secondo me, può toglierci dall’imbarazzo di paragonare il nostro sentimento al suo. Lo Piccolo junior (scritto così sembra una tautologia) dichiara il suo amore al genitore mentre lo vede cadere, dopo aver condiviso con lui crimini e latitanza. Quel “papà, ti amo” è il grido doloroso di una resa definitiva, il suggello di una vita impossibile. Il suo sentimento è tremendamente umano, quanto disumano è l’ambito nel quale è maturato. Il padre come mito criminale, un capo imprendibile, la violenza come legge, gli altri come vittime o avversari: il mondo infimo di Sandro Lo Piccolo si sgretola con l’arrivo di quegli uomini armati e mascherati che vengono a catturare suo padre. Lui non lo saprà mai, ma in fondo sono venuti a liberarlo.