Le vite degli artisti sono invidiate e mai troppo capite. C’è sempre quell’effetto flou che ce le rende sfumate, agognate e distanti. Nella buona e nella cattiva sorte esercitiamo nei confronti di queste esistenze, che ci piace immaginare come superiori e comunque irraggiungibili, una sorta di salvifico distacco. Vorremmo essere loro, i vip, i ricchi, i famosi, ma senza le loro responsabilità. Vorremmo il loro conto bancario, ma non i loro impresari. Vorremmo danzare\cantare\recitare\giocare come loro, ma non essere braccati come loro. Vorremmo la loro fama, insomma, rimanendo noi stessi.
E’ così che quando li vediamo in rovina peschiamo dal nostro bagaglio di convenienza quel sollievo egoista che rende apprezzabili pure le vite più miserabili: noi non siamo loro, per fortuna. D’improvviso il nostro paesino diventa il luogo ideale in cui vivere, la nostra casa una reggia, le nostre beghe familiari piccoli dazi da pagare per garantirci una falsissima aurea mediocritas. A questo pensavo ieri seguendo la parabola (anche familiare) di Loredana Bertè. Cercando di trovare il bandolo di una matassa, la sua, che sembra fatta ormai esclusivamente di nodi, mi sono reso conto di quanto le vite illustri possano essere indifese davanti ai rigori del mare d’inverno. Più si ha e meno si è disposti a rinunciare, quasi una legge contronatura. Più si è avuto e meno si tollera ciò che ci è stato tolto. In realtà il segreto della resistenza e della tolleranza – è un’esperienza personale – sta in una formula che prevede più sottrazioni che addizioni.
Imparare a vincere è molto più difficile che saper perdere. Perché è il dopo che conta. E se vinci, prima o poi, dovrai avere a che fare con un futuro, nel migliore dei casi, peggiore.