L’arma della nostalgia

Durante l’emergenza Covid mi impegnai al massimo per cercare di mettere a frutto tutta la mia (modesta) esperienza di futuro, che detta così sembra un ossimoro dato che l’esperienza proviene necessariamente dal passato. Su questo blog ne venne fuori un longform che fornì stimoli per qualche dibattito pubblico e per proficue discussioni private. Finita l’emergenza Coronavirus ho rivisto alcuni miei appunti di allora, soprattutto questo sulla nostalgia come ponte tra passato e presente. E mi sono inchinato dinanzi alla constatazione che, cambiando le cose e le situazioni, cambia anche il nostro modo di guardare il (o al) mondo.

Lo spunto me lo ha dato l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022 (sono uno a lenta carburazione). Perché la guerra è il banco di prova dei nostri convincimenti. Un tempo ci si muoveva con le armi per guardare avanti, per promettere un futuro migliore ai figli della patria. Oggi il futuro come elemento fondante di materia prima non tira più.
I nuovi nazionalisti, i nuovi populisti, i nuovi trumpiani di ogni landa promettono l’antico fasto, il ritorno del vecchio inscalfibile potere, in una parola il passato.
La stessa idea di nostalgia è cambiata. Una volta si concentrava su un luogo specifico, su un panorama, su un’abitazione, magari quella della nostra infanzia. Insomma la nostalgia aveva odori e sapori.
Oggi il tempo (ergo il passato) ha sostituito lo spazio (ergo la casa d’infanzia) quindi, come ha suggerito lo scrittore Georgi Gospodinov, forse si dovrebbe usare un altro termine, tipo cronostalgia.

Le guerre per il passato, per riscriverlo, per rifondarlo, per spalmarlo su un presente incerto sono esattamente il contrario di ciò per il quale le generazioni del secolo scorso hanno vissuto e spesso combattuto. Erano proprio le difficoltà del loro presente, ai tempi di quel presente, a spingere quei popoli verso il futuro.
Invece oggi Putin e quelli come lui combattono in un’altra epoca spacciandola per una contemporaneità diffusa e condivisa. È da qui che discende tutta la caterva di nefandezze che conosciamo del dittatore russo e non solo: la cancellazione del confine tra verità e menzogna; la considerazione della vita umana come un bene esposto su un bancone del mercato; l’esasperazione delle polarizzazioni economiche, sociali e politiche.
Quando il passato diventa un alibi, la verità muore.
Quando la nostalgia cambia pelle, la ragione muore.

Il fascino (e l’utilità) della nostalgia

Qualche giorno fa su Facebook ho accennato al potere salvifico della nostalgia e per comodità riporto di seguito il post.

Non sono mai stato un nostalgico, ma sto rivalutando la nostalgia. Ne “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust, il narratore assaggia una madeleine che sprigiona un torrente di memorie e in tal modo umanizza l’atto del ricordare a distanza di tempo. Così mi sono convinto a provare qualcosa del genere – tipo ingurgitando un panino con le panelle di una particolare friggitoria – e mi sono arreso dinanzi alla constatazione che la nostalgia è in realta una bella rampa di lancio per il futuro: non solo ci fornisce un’ancora mentale e fisica quando il paesaggio cambia, ma ci fa concentrare su ciò che per noi è più prezioso. Detto questo, sto leggendo un po’ di roba sull’argomento (anche tosta, al limite del pungente) e per i quattro/cinque interessati ci tornerò su prossimamente.

Quindi mantengo la promessa e tiro in ballo una giornalista scientifica, Elizabeth Svoboda, che qui ha scritto di nostalgia parlando di una malcelata vergogna che ci prende quando ci culliamo nei ricordi: “Questo senso di disprezzo per l’esplorazione dei meandri del nostro passato ha una tradizione secolare. La parola “nostalgia”, coniata nel seicento dal medico svizzero Johannes Hofer, è composta dalle parole greche nostos (ritorno) e algos (dolore)”. Solo che Hofer usava il termine per descrivere una presunta malattia riscontrata nei soldati mercenari svizzeri che si struggevano per la patria. Era convinto che i sintomi – tipo attacchi di pianto e perdita di appetito – fossero causati dalla “vibrazione degli spiriti animali attraverso quelle fibre del mesencefalo in cui resiste ancora l’idea di patria”. Poi, per fortuna, le cose cominciarono a essere viste in modo diverso. E tutto andò bene (o meglio) sino all’avvento dei social network quando la nostalgia divenne nuovamente una malattia collettiva: gruppi come “si stava meglio quando si stava peggio”, “cose degli anni settanta che solo chi era bambino negli anni settanta può capire” e via discorrendo hanno più feedback della roba di cronaca.
Quando ricordare diventa un modo comodo per evitare di immaginare, allora siamo di fronte a un pericoloso esercizio di pigrizia. Perché pericoloso? Perché aggirare la nostalgia significa togliersi la possibilità di trovare nuove vie d’uscita quando ci si sente spacciati. Spiega la Svoboda che “in una nuova cura per la demenza chiamata ‘terapia della reminiscenza’ gli specialisti usano foto, oggetti o brani musicali per stimolare conversazioni e riflessioni sui ricordi più profondi dei pazienti”.
Alcuni psicologi hanno fatto studi sull’effetto della nostalgia, tra questi Andrew Abeyta della Rutgers University del New Jersy secondo il quale la nostalgia rende le persone più ottimiste. Il ragionamento, per farla breve, si basa sulla sindrome di Pollyanna, cioè la tendenza a rievocare più facilmente i ricordi positivi rispetto a quelli negativi. E tutto è amplificato da un altro fenomeno riscontrato dai ricercatori: quello secondo il quale quando raccontiamo storie che hanno a che fare con la nostalgia tendiamo a usare un linguaggio più ottimistico del solito.
Insomma, al netto degli esperimenti scientifici, la nostra esperienza non è soltanto passato, non è soltanto ciò che ci è accaduto, ma è la materia prima sulla quale modellare il futuro: come argilla per plasmare forme inedite.

P.S.
Questo argomento mi servirà per introdurre domani la mia conferenza a Piazzetta Bagnasco a Palermo dedicata agli “appunti per il futuro”. Ricordiamocelo sempre: per guardare con lucidità al futuro bisogna tenersi caro il passato.      

Saggia apostrofe a tutti i caccianti

Illustrazione di Gianni Allegra
Illustrazione di Gianni Allegra

Storie minime

di Roberto Puglisi

“Fermi! Tanto non farete mai centro.
La Bestia che cercate voi,
voi ci siete dentro”.

Giorgio Caproni

Una giovane modella è stata divorata da un organismo nemico. Le hanno amputato piedi e mani. La morte è arrivata dopo l’assalto al castello. Parabola ghiotta e morale del nostro essere infinitesimali e finibili, tra le braccia di una sorte imperscrutabile. Io conosco un’altra storia un po’ così. Solo che alla fine nessuno muore, o chissà.
Lui si chiamava Enzo e suonava il pianoforte da Dio allo Zen. Un Dio misericordioso si accorse di quel talento fiorito tra i padiglioni e si fece vivo nella persona di un munifico mecenate che volle sostenere gli studi musicali di Enzo, pagandogli il conservatorio. Il metronomo cominciò a segnare tempi diversi, giornate finalmente accordate. Lo spartito cancellò la sinfonia dello spaccio e la sostituì col quartetto di un’ignota felicità.
C’è sempre una stonatura, un organismo nemico che riporta la gioia alla sua evidenza di cenere mortale. Enzo si stancò delle dita abbandonate sulla strada dei tasti. Tornò alla droga, tornò in carcere. Lasciò il piano in cantina. Sarebbe facile dire che lo lasciò nel buio con tutti i suoi sogni. Chissà se fu davvero mai così. Ora, Enzo – così mi dicono – è uno che si sta facendo avanti allo Zen, un grosso nome. Non ha rimpianti apparenti. Forse è il nostro romanticismo inguaribile che ci spinge a condire tutto con la nostalgia. Sei sempre tu ciò che ti mangia.