I decaloghi

La polizia ha trovato nel covo del boss Salvatore Lo Piccolo un decalogo del perfetto mafioso. Ve lo propongo con qualche spunto per un contro-decalogo da uomini normali, insomma non di onore.
Primo. “Non ci si può presentare da soli a un altro amico nostro, se non è un terzo a farlo”. Evitare i terzi incomodi, sempre.

Secondo.“Non si guardano mogli di amici nostri”. Le mogli dei nostri amici si guardano con riguardo.
Terzo. “Non si fanno comparati con gli sbirri”. Gli sbirri si rispettano. E, più degli amici, si possono chiamare nel momento del bisogno. Accorrere è il loro mestiere.
Quarto.“Non si frequentano né taverne e né circoli”. Taverne e circoli sono posti in cui può essere piacevole, ogni tanto, perdere tempo.
Quinto. “Si ha il dovere in qualsiasi momento di essere disponibile a Cosa nostra. Anche se c’è la moglie che sta per partorire”. E’ utile spegnere il telefonino nel corso della giornata. A meno che la moglie non stia per partorire.
Sesto. “Si rispettano in maniera categorica gli appuntamenti”. Ci sono appuntamenti a cui è bene mancare: è un ottimo modo per rimediare in extremis agli errori.
Settimo. “Si deve portare rispetto alla moglie”. Se uno prende moglie è perché la ama, altrimenti è, nel migliore dei casi, scemo.
Ottavo. “Quando si è chiamati a sapere qualcosa si dovrà dire la verità”. La verità è spesso parente stretta del dolore: somministrare con cautela.
Nono. “Non ci si può appropriare di soldi che sono di altri e di altre famiglie”. Non rubare, l’ha già detto qualcuno ben titolato.
Decimo. “Non può far parte di Cosa nostra chi ha un parente stretto nelle varie forze dell’ordine, chi ha tradimenti sentimentali in famiglia, chi ha un comportamento pessimo e che non tiene ai valori morali”. Chi fa parte di Cosa nostra non merita un parente nelle forze dell’ordine, ha un comportamento pessimo, non tiene minimamente ai valori morali.

Il mondo di Sandro Lo Piccolo

Salvatore Lo Piccolo, erede del boss Provenzano, finisce in trappola. E mentre gli agenti della sezione Catturandi della squadra mobile di Palermo lo arrestano, suo figlio Sandro gli grida “Papà, ti amo”. Il dettaglio non passa inosservato. Primo, perché il giovane è un criminale con un ergastolo alle spalle e, pure lui da latitante, partecipava con il padre a un summit di mafia. Secondo, perché ci catapulta nei meandri, difficilmente esplorabili, della razionalizzazione dei sentimenti. L’amore di un figlio verso il padre non può essere messo in discussione, è uno di quei sistemi assoluti che può condurre con uguale forza alla felicità come alle nefandezze più impensabili. E’ tutto e troppo, è completezza e annientamento, biologia ed assioma. Nel grido del trentenne Sandro c’è, molto probabilmente, amore vero, incondizionato. Ciò non fa di lui una persona umanamente meno peggiore rispetto a ciò che la sua fedina penale ci racconta. Amare, come sappiamo, non dà patenti né costituisce attenuante. E’ il contesto nel quale questo sentimento si dispiega che, secondo me, può toglierci dall’imbarazzo di paragonare il nostro sentimento al suo. Lo Piccolo junior (scritto così sembra una tautologia) dichiara il suo amore al genitore mentre lo vede cadere, dopo aver condiviso con lui crimini e latitanza. Quel “papà, ti amo” è il grido doloroso di una resa definitiva, il suggello di una vita impossibile. Il suo sentimento è tremendamente umano, quanto disumano è l’ambito nel quale è maturato. Il padre come mito criminale, un capo imprendibile, la violenza come legge, gli altri come vittime o avversari: il mondo infimo di Sandro Lo Piccolo si sgretola con l’arrivo di quegli uomini armati e mascherati che vengono a catturare suo padre. Lui non lo saprà mai, ma in fondo sono venuti a liberarlo.

Fratelli di Romania

E ora dove lo mettiamo questo corpo di donna straziato? E’ un cadavere ingombrante quello di Giovanna Reggiani, violentata e uccisa a Roma dal rumeno Romulus Nicolae Mailat.
Lo mettiamo negli armadi della falsa coscienza di chi, come alcuni deputati della Sinistra ultraradicale, insiste nel considerare le nostre frontiere come cancelli spalancati a tutti gli stranieri che intravedono la possibilità di delinquere a costi irrisori?
O lo mettiamo in conto al sistema politico-amministrativo nazionale che gode in modo onanistico a invocare linee dure, ma che provvede a metterle in atto sempre dopo, in ritardo, a colpo sparato, a cadavere freddo (tranne che non si tratti di ferocissimi lavavetri)?
O ancora lo mettiamo in un cimitero rumeno a testimonianza dell’amicizia tra i popoli (“io amicu, tu amicu, tutti amicu”) dopo che l’intera comunità e il governo rumeni si sono mobilitati per dissociarsi dai criminali, dare un bell’esempio, manifestare sdegno, isolare le mele marce?
Oppure lo mettiamo in una delle migliaia di baracche abusive in cui i delinquenti comunitari (e non) nascondono la refurtiva, campano, si riproducono e pianificano nuovi colpi?
C’è imbarazzo per decidere dove mettere il cadavere di Giovanna Reggiani. C’è imbarazzo a raccontare le cose in modo chiaro, senza temere di essere fraintesi. C’è imbarazzo a dire che molti rumeni arrivati in Italia sono dei delinquenti, più degli altri immigrati. C’è imbarazzo persino a incazzarsi perché l’odioso sospetto di razzismo sta lì, dietro l’angolo. Un angolo buio e pericoloso da cui è bene stare alla larga.

Il blog di Vallanzasca

Renato Vallanzasca, il bandito Renato Vallanzasca, ha deciso di aprire un blog in cui racconta dalla cella la sua verità. Il signore in questione è stato condannato a quattro ergastoli e duecentosessanta anni di reclusione. Nel suo curriculum ci sono gli omicidi di due preti, quattro poliziotti, un vigile urbano, un medico e un impiegato di banca (e forse mi dimentico di qualche altra povera vittima). Sullo sfondo – si fa per dire – quattro sequestri di persona, una settantina di rapine, un paio di evasioni, risse e sommosse in carcere. Lo scorso anno sua madre ha chiesto per lui la grazia, che però è stata negata.
Uno dei motivi ispiratori di questa sua esperienza di comunicazione via internet è, come lui stesso scrive nell’editoriale d’inagurazione, prendere a bersaglio i giornalisti, anzi “ i pennivendoli” che gli hanno riversato “addosso delle belle camionate di cacca”. Cosa si aspettava? Petali di rosa sotto i piedini? Applausi sul divano di”Porta a porta”? Il milione del signor Bonaventura?
E’ davvero uno strano Paese l’Italia, basta leggere i commenti al primo post del criminale in questione.
Vallanzasca è, come si è impegnato a dimostrare in anni di scorrerie e di morte, una persona molto pericolosa. Facciamo pure lo sconto dei quattro ergastoli, ma per i restanti duecentosessanta anni possiamo pretendere di non sentirlo blaterare di giustizia e di insegnamenti di vita?

La croce delle farmacie

Ditemi la verità. Sono io che sto rimbecillendo o questo Papa non perde occasione per rendere la Chiesa sempre più distante dai cattolici meno fanatici?
Abbiamo più volte discusso sui pericoli di una Chiesa che vuole farsi parlamento, corte costituzionale, ministero delle Finanze, eccetera. Se non ci fosse in ballo la religione si potrebbe parlare di furberie da bagarini…
Adesso quest’allergia alle leggi dello Stato comincia seriamente a preoccupare. Ieri, ad esempio, il Pontefice ha detto ai farmacisti di non vendere le pillole anticoncezionali. Lo ha fatto nel sofismo stilistico che contraddistingue certi politicanti abili nel mandare a dire. Non c’è da aprire dibattiti, diciamolo chiaramente. C’è da armarsi di coraggio e parlare: Santità, pensi al suo ruolo e la smetta, per certe cose ci sono norme scritte.
Qualcuno, che ha i titoli per farlo, dovrà pur affrontare l’argomento. Altrimenti sulle insegne delle farmacie troveremo presto un’altra croce.

Governo spa

Mettiamo che uno decida di fare una società. Come se li sceglie i soci? Magari li conosce e si fida quindi il problema non esiste. Oppure confida nelle capacità imprenditoriali o nelle conoscenze specifiche dei soggetti. Inoltre uno guarda l’aspetto umano delle persone: se sono coerenti, oneste, equilibrate, geniali. Poi pensa anche al patrimonio e a quanto i soci possono mettere nell’affare, se sono solidi economicamente.
Il governo di un Paese è come una società. Con quali requisiti Prodi e i suoi accoliti hanno scelto uno come Mastella? Si (lo) conoscevano già. Avevano cognizione diretta delle sue capacità. Si erano imbattuti più volte, nel corso di svariate legislature, nelle sue qualità umane. Eppure lo hanno preso come socio, è il caso di dire, di maggioranza.
Si sono lasciati sedurre dal suo patrimonio (di voti). Ora non resta che andarsi a rifugiare dal giudice fallimentare.
Prodi si dice fiducioso. Molti di noi no.

Un pizzino

Ricevo un biglietto, quasi un pizzino.

Gentile dottor Palazzotto,
di questi ultimi tempi non sono stato molto bene che mi sono operato alla tiroide. Che macello dietro la porta dell’ospedale.. almeno 50 cristiani con i mitra spianati? E dove dovevo andare con la flebo attaccata? Per non parlare del catetere che proprio impedisce ogni movimento.
A uno di questi carabinieri ho pregato di scriverci queste quattro parole che spero le risulteranno chiare (questa frase l’ho aggiunta io, il carabiniere, perché non è che sono molto pratico con l’italiano).
Comunque io non le scrivo per questo ma per sottoporle una vicenda che mi sta facendo saltare i nervi. Lei lo sa quanti libri hanno scritto su di me? Ma lei lo sa che in poco più di un anno dalla mia cattura (su cui stendo un velo pietoso perché sono momenti molto tristi) tutti e dico tutti, tranne forse lei e altri due tre scrittori e giornalisti di Palermo, hanno scritto solo su di me?
Hanno detto di tutto. Sui pizzini persino le barzellette c’hanno fatto. Ognuno ha una storia da raccontare sulla stessa cosa. E Provenzano di qua, e Provenzano di là. Il fatto è che ci hanno guadagnato tutti. E a me, che sono vero il protagonista, niente. Manco un centesimo. Dico io, è giusto questo? E’ giusto che tutte le case editrici pubblicano cose che sono tutte uguali uguali?
Io dico, e va bene un libro, perché è giusto che tutti si ricordano di un uomo come a me. Va bene due, va bene quattro, cinque, tiè. Ma quanti ce ne sono in questo momento in commercio?
E lei come mai non l’ha scritto??????????????
Ma poi, tolti gli altri giornalisti che si leggono i libri degli amici, cu minchia si leggi ‘sti libri (scusi dottor Palazzzotto ma proprio questa parola, minchia, lui ha voluto mettercela – il carabiniere).
Lo ringrazio per l’attenzione e mi raccomando, se sente qualcuno che deve scrivere un libro su di me, ce lo dica lei: e bastaaa!

Provenzano Bernardo

La briscola del Nobel

I premi non sono tutto. I pubblici riconoscimenti non sono un certificato di garanzia. Il fatto che uno abbia vinto il Nobel non esclude che possa sparare delle cazzate atomiche. Se il professore Watson, lo scopritore della struttura del Dna, pensa che i neri siano meno intelligenti dei bianchi non bisogna scandalizzarsi troppo: il signore in questione è anziano, ne ha già sputate altre su omosessuali e libido razziale.
Ha fatto la sua bella scoperta, Mr Watson, negli anni Sessanta. E forse ha pure avuto un certo culo. Ora si goda la pensione. Qualcuno lo tenga lontano da microfoni e telecamere. A una certa età, meglio imparare a giocare a briscola.

Neanche un libro

I primi sospetti ci sono venuti quando abbiamo visto il locale, che assomigliava a una palestra, chiuso a chiave. Poi, dopo l’arrivo degli svogliati “organizzatori” (le virgolette ci vogliono), è arrivata la conferma: la palestra era proprio una palestra, la desolazione era desolazione. Così, io, lo scrittore Giacomo Cacciatore e il regista Floriano Franzetti ci siamo ritrovati a essere protagonisti di una manifestazione che non c’era. L’occasione era quella di una fantomatica Expo Libro di Catania, ospitata nei locali del Cus alla Cittadella universitaria, ideata dalla cooperativa Arcana e organizzata dalla C.A.M. La seconda delle tre giornate era dedicata al tema “Giallo, nero e mistero”. Giallo come lo schermo ad altezza siderale sul quale non sono state proiettate le due docu-fiction in programma, nero come le vetrate luride dell’improvvisata sala da convegni, mistero su come è possibile finanziare una manifestazione del genere. Perché è solo questo che mi preme dire: non so quanto sia costata questa messinscena, ma so che c’è lavoro per avvocati e magistrati. Coi soldi pubblici non si scherza: nel nostro piccolo abbiamo cenato e dormito (anche qui tra variazioni di giallo, nero e mistero) a spese di voi tutti. Tre sponsor tra tutti: Confindustria Sicilia, la Provincia di Catania e l’assessorato ai Beni culturali del Comune di Catania. Non so – né mi interessa – cosa sia accaduto negli altri due giorni di manifestazione. Mi limito a constatare che in questa presunta Expo libro non ho visto neanche un libro. C’erano solo solo sedie vuote, attrezzi ginnici accatastati, un paio di locandine scritte con un pennarello. Se qualcuno può testimoniare sui reading, sulle proiezioni e sui concerti promessi, si faccia avanti. In ogni caso la parte che ci riguardava non è mai esistita. Sponsor pubblici e privati, se lo ritengono opportuno, possono farsi restituire i soldi.

I ventitrè di Cuffaro

Possono giocare una partita di calcio senza avere bisogno di trovare una squadra avversaria. Hanno persino una riserva o, se preferiscono, un arbitro. Sono in ventitrè. Il numero di cromosomi nelle cellule germinali umane. Il numero che nella smorfia napoletana rappresenta lo scemo. Il numero di maglia di Michael Jordan. Il numero di coltellate inferte a Giulio Cesare. Il numero di figlie di Adamo ed Eva. E, da pochi giorni, il numero di addetti stampa del presidente della Regione siciliana Salvatore Cuffaro, appunto.
Il governatore dell’Isola non è certo un pigro, questo va detto. Ha un’attività lavorativa febbrile ed è chiaro che ha bisogno di un’ampia schiera di collaboratori. Se anche questi colleghi lavorassero a turno un solo giorno alla settimana, Cuffaro godrebbe di una forza operativa di 3,28 giornalisti ogni 24 ore.
La coltura estensiva delle assunzioni produce solo frutti bacati, quelli dell’assistenzialismo e del clientelismo. In una regione che ha bisogno di sbracciarsi per essere competitiva non è un bell’esempio, quello del suo presidente. Se io fossi in lui non perderei tempo a spiegare – di certo avrà leggi, codicilli e delibere dalla sua – ma correrei subito ai ripari. Dopo aver detto: scusate, abbiamo sbagliato.