La cenere di New York e quella di Kabul

Che gioco è quello in cui, alla fine, tutti perdono? E’ la domanda – banale quanto volete – che mi ronza in testa da qualche anno, dopo la strage dell’11 settembre 2001. Da allora, ad ogni anniversario, le due parti fanno, a modo loro, bilanci trionfali. Da un lato il progressivo annientamento degli “Stati canaglia”, dall’altro una continua pressione (anche psicologica e mediatica) su Bush e il suo “popolo di infedeli”.
Ci sono ancora molti dubbi su ciò che accadde la mattina di sei anni fa nei cieli d’America, i più sorvegliati al mondo. Non riesco ad avere un’idea precisa degli scenari, perché mi sono ingozzato di ogni tipo di documento, articolo, video, fanzine, pizzino sull’argomento. Posso solo riferire ciò che la pelle trasmette, perché a quella devo limitarmi: sotto c’è la carne, e in questa storia la carne brucia tra le macerie.
Il popolo Usa ha dimostrato una coesione degna della sua tradizione (non antica, peraltro). Nei momenti difficili, tutti col Presidente, sempre. Poi gli si faranno le pulci.
Le bombe intelligenti perdono punti nella scala del QI anche se a lanciarle è un premio nobel. Figuriamoci se le tira un coglione.
La guerra preventiva è un segno di onnipotenza che genera orfani preventivi, fame preventiva, vendette preventive.
Alcuni giornali, all’indomani delle stragi, scrissero: “Siamo tutti americani”. Dalle mie parti, per cultura, siamo più arabi che americani. Non lesiniamo aiuti e solidarietà, non abbiamo pulsioni da kamikaze. E soprattutto se vogliamo fare il pieno di benzina, ci affianchiamo con l’auto e paghiamo, non occupiamo militarmente tutto il quartiere per prenderci il distributore.
L’11 settembre è una buona occasione per riflettere sulle vittime senza colore. A Manatthan come a Kabul, la cenere è grigia.

 

Fischi

Agosto 1989. Keith Jarret sta suonando malissimo al Teatro della Verdura (Palermo). Uno spettatore pagante lo fischia, lui abbandona il palco. Lo spettatore viene allontanato dai carabinieri.
Luglio 1992. Ai funerali di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, una folla magmatica e inferocita contesta ministri e vertici delle forze dell’ordine. Oltre ai fischi, calci, pugni e sputi.
Aprile 1993. All’uscita dell’ hotel Raphael di Roma, Craxi, travolto dalle inchieste di Tangentopoli, viene sommerso dai fischi. Ma nella memoria (e nella storia) resta la pioggia di monetine.
Settembre 2007. Nello stesso giorno, sabato 8, un gruppetto di teste vuote fischia Prodi ai funerali di Pavarotti e uno stadio di teste vuote fischia la marsigliese, prima dell’incontro Italia-Francia.
Non ci sono più i fischi di una volta.

Sorpresa: si parla di mafia

Innanzitutto, grazie. Ieri questo blog, nato appena nove mesi fa, ha avuto il suo piccolo record di contatti. Non sono importanti le cifre, questo è un blog personale, fatto in economia: anche 50 visitatori in più sono un successo. Conta invece il tema che ha alimentato l’interesse dei lettori: la mafia.
Dopo le parole chiave slip di vip, sodomia, culi e via smanettando, finalmente una colonna di internauti è approdata su queste pagine per discutere, incazzarsi, approvare o dissentire su un’emergenza non patinata e poco fotogenica come Cosa nostra. La provocazione lanciata un paio di giorni fa (“La mafia ha rotto i coglioni”) è stata raccolta da molti blogger, primi tra tutti Lesandro e Mara. In alcuni forum si discute sull’utilità o meno dello slogan. Ottimo. L’importante è parlarne, dappertutto.
Stamattina sono tornato a fare il giornalista, dopo qualche secolo trascorso in naftalina. E l’ho fatto semplicemente partecipando alla manifestazione di solidarietà per Lirio Abbate, il cronista dell’Ansa pluriminacciato dalla mafia. Passeggiando per le vie di Palermo, in compagnia di colleghi di cui non ricordavo più il volto, mi sono imbattuto in due riflessioni acuminate.
La prima riguarda il sequestro della vittima. Abbate è stato praticamente catturato da esponenti politici, big del sindacato e dell’Ordine per tutta la manifestazione, in uno strano ruolo di preda-simbolo-gonfalone da brandire, mostrare, anzi ostentare. E’ stato molto difficile avvicinarlo e, conoscendolo, immagino che lui avrebbe preferito una passeggiata più informale.
La seconda riflessione riguarda la notizia da cui ha avuto origine tutto ciò. Il Giornale di Sicilia l’ha pubblicata in un taglio basso di una pagina interna, neanche un richiamo in prima. Lirio è siciliano, lavora a Palermo, si occupa di mafia ed ha lavorato per il Giornale di Sicilia. Eppure gli è stato riservato uno spazio minimo rispetto all’entità del fatto.
Nello stesso giorno, invece, La Repubblica – che ha sede a Roma – ha pubblicato un fondo-intervista in prima pagina a firma di un vicedirettore, Giuseppe D’Avanzo. E’ da lì che è nato il movimento di idee e solidarietà che adesso abbraccia Lirio.

Brutte notizie dal Diario

Come si dice, un giornale che chiude è sempre una brutta notizia. Credo che, nel nostro tempo, viviamo sempre più scomodi perché ci sono sempre meno pagine da sfogliare. Il silenzio di una fonte di informazione fa gioire solo gli oligarchi delle leggi ad personam e gli arroganti che delle leggi se ne fregano.
A questo pensavo (e ad altro che non posso riferire) stamattina mentre leggevo l’editoriale del “Diario della settimana”.
“Quello che avete tra le mani è l’ultimo numero di Diario della settimana. Insieme alla carta arriva il nostro ringraziamento a tutti i lettori, i collaboratori, i sostenitori che ne hanno fatto, ne siamo sicuri, una buona esperienza nel panorama del giornalismo e dell’editoria italiana. Domani non ci sarà la nostra settimanale riunione di redazione. Naturalmente siamo tutti tristi. Le e-mail comunque funzionano. Certo che se domani una spontanea ribellione di siciliani attacca i poteri della mafia, ci sarà da mordersi le mani a non avere un giornale. Chiediamo ai siciliani di attendere: aspettateci, non siamo ancora pronti. E così a tutti gli altri. In fondo Diario è sempre stato un giornale ottimista”.
Auguri da siciliano: l’ottimismo non fa parte della cultura della mia terra; per questo, Diario ci serve.

Il mestiere di giornalista

A Palermo c’è un giornalista che è costretto a lavorare con la scorta. I contenuti di certe comunicazioni tra mafiosi e alcuni messaggi di minaccia lo rendono “persona a rischio”: sabato scorso hanno persino tentato di piazzargli una bomba sotto l’auto. Lirio Abbate scrive di mafia da molti anni, nonostante non sia un vecchio del mestiere: il vizio della cronaca lo ha preso infatti che era giovanissimo.
Dopo un periodo in cui, per motivi di sicurezza, ha accettato di trasferirsi a Roma, è rientrato in Sicilia, nella terra che più ritiene fertile di notizie, la sua terra. E, puntuali, ha trovato gli uomini delle cosche a dargli il bentornato.
Sono molto critico nei confronti della categoria dei giornalisti – di cui faccio parte da tempo – perché si è lasciata svuotare di ruoli e responsabilità. Ci sono più pensatori che cronisti, più tecnici di impaginazione che teste curiose, più poltroncine che tacchi consumati. La notizia non va più cercata, ma trattata. La verità esiste solo nella testa di certi direttori, che col giornalismo hanno poca dimestichezza. I dubbi, che sono il sale del giornalismo, sono privilegio di pochissimi.
Lirio Abbate – che, spero, non diventi mai un simbolo – mi riconcilia con questa professione. Perché lui ha dimostrato di avere l’ostinazione e l’onestà che mancano alla maggior parte di noi.
P.S.
Proviamo a scrivere dovunque questa frase: la mafia ha rotto i coglioni.

Liberi da Libero (parte seconda)

Da più di sei mesi cerco di liberarmi di un contratto con Libero Infostrada. Ho regolarmente inviato la disdetta per raccomandata con ricevuta di ritorno, ho regolarmente aspettato una risposta, ho regolarmente fatto la figura del pollo continuando a farmi succhiare i soldi dell’abbonamento che non voglio più, ho regolarmente consumato il mio fegato passando da un call center all’altro, ho regolarmente maledetto la cattiva educazione delle stressatissime signorine che cinguettano falsamente “buonaserasonosamathaincosapossoesserleutile” e poi ti sbattono il telefono in faccia.
Già ad aprile ci eravamo confrontati sulle inadempienze di Libero Infostrada. Mi spiace, l’avventura non è finita. Quello che più mi interessa adesso è riuscire a parlare con un responsabile di questa società, una persona in carne e ossa, con un nome e cognome, che occupi un livello aziendale che non dia alibi a risposte vacue o a rinvii. Come si faceva una volta: se uno acquistava un bene o un servizio che non rispondeva alle aspettative, tornava dal rivenditore e gli piantava un casino. Oggi il meglio che possa capitare a chi ha un problema del genere è ritrovarsi con le falangi aggrovigliate sulla tastiera del telefono alla ricerca dell’opzione idonea a trasformare una voce preregistrata in una centralinista svogliata.
La missione continua.

La strana storia del signor Rubin

Il gigante discografico Columbia Records ha assoldato come co-presidente un quarantaquattrenne, produttore di gruppi rock, capellone, appassionato di yoga, che va in giro senza scarpe e che ha fatto scrivere sul contratto che non andrà mai in ufficio nella sede di New York. Rick Rubin vive in California, è appassionato di magia, legge testi orientali, probabilmente si spara qualche canna e ha accettato un compito pazzesco: salvare le case discografiche dai colpi inferti dal popolo dell’Mp3 che non compra più cd e che scarica files sull’iPod. I giornali puntano tutto sull’effetto: l’anti-manager ce la farà? Il neo-hippy può essere un bluff? Come lavora uno che non va in ufficio per contratto? Come la prenderanno colleghi e sottoposti?
Ciò che non si dice (scrive) è, come spesso accade, la frase più elementare: questo Rubin deve essere veramente bravo.
Se i signori della casa madre Sony, che notoriamente non sono né scemi né votati al harakiri, lo hanno scelto devono aver guardato oltre le sue apparenze pulciose. In un mondo in cui l’attento osservatore dei costumi è ormai solo un maniaco da spiaggia, nuove strade vanno tentate. Lo stile corporate, il fare e pensare trendy, l’abbigliamento griffato, il volto piallato dai chirurghi non sono necessariamente garanzie di buona amministrazione: qualcuno comincia ad accorgersene. Come dire? Proviamo con i cannaroli, i cocainomani hanno fallito.

Chi legge i libri?

Perché in uno dei maggiori premi letterari italiani, con eccezionale appendice televisiva, si sceglie di far leggere brani di libri italiani a una persona che non conosce bene l’italiano? Al premio Campiello 2007, sabato sera, è andato in onda un curioso esempio di inconcludenza tricolore. Nel nome di un anelito all’apertura del nostro mercato letterario nei confronti di altre nazioni (la Spagna in questo caso), gli organizzatori hanno tirato fuori dal cilindro l’invenzione più geniale: far declamare alcuni brani dei romanzi finalisti a una incolpevole lettrice ispanica che non ne ha azzeccata una.
Il problema non è di carattere nazionalistico: non ce n’è mai fregato niente delle nostre radici, figuriamoci degli accenti. La questione, secondo me, è invece puramente logica.
In nessun altro Paese del mondo – ne sono convinto – scelgono di far rappresentare un prodotto tipico a uno straniero. Per rispetto dello straniero, innanzitutto. In un premio letterario poi la questione diventa cruciale. Siamo una nazione che legge pochissimo e che per giunta, nei rari spazi in cui la diffusione mediatica potrebbe essere un massaggio cardiaco al torace immobile dell’editoria, si affida a un forestiero.
Tornando alla domanda d’apertura. Perché ci comportiamo così?
Semplice. Perché siamo stupidi, guidati da stupidi che ci trattano come ci meritiamo. Da stupidi.

Nella foto, Mariolina Venezia, vincitrice del Campiello 2007 con “Mille anni che sto qui” (Einaudi).

In miniera!

I ministri della sinistra radicale minacciano di scendere in piazza il 20 ottobre nella manifestazione nazionale contro l’accordo sul welfare. Il ministro Mastella (nella foto è quello col microfono in mano!) minaccia che se ciò accadrà sarà crisi. Veltroni minaccia di essere d’accordo con Mastella. Marini minaccia il voto anticipato. Rifondazione minaccia di agire senza minacciare più.
Nel tormentone estivo della sinistra divisa, la minaccia di fare qualcosa è la pura realizzazione di un programma di governo. Nell’accozzaglia rissosa che per convenzione è stata chiamata maggioranza, fin dalla campagna elettorale si era purtroppo capito che l’avvertimento avrebbe sommerso per importanza il provvedimento. La politica del mandare a dire contro la politica del fare: questo è lo stato delle cose.
Molti di noi, sostenitori incoscienti di Prodi e compagnetti discoli, ritengono che lo spettacolo sia noioso e minacciano di dimettersi dal ruolo di spettatori paganti.
Ricordo un urlo dalla folla, al termine di una commedia penosa, qualche anno fa: “In miniera!”. Oggi basterebbe: “A lavorare!”. Che forse suona come un’offesa.

Il giorno dei blogger

Oggi si celebra il blog day. Io aderisco: l’iniziativa si propone di diffondere la cultura del blog. Ecco le mie segnalazioni.
Lesandro’s. Uno spazio dove le parole non sono aria tra i denti. Per gli amanti della polemica feconda.
L’Angolo nero. Il blog del mistero, curato da Alessandra Buccheri, è ben aggiornato e mai ridondante. Per gli amanti del giallo, e non solo.
Così è (se vi pare). Ironico, rapido nell’informazione. Ricco di battute e fotomontaggi. Per chi non gradisce la risata grassa.
Parole corsare. Politica, religione, costume secondo Salvo Toscano. Per gli amanti della moderazione.
Diarioacido. Vignette taglienti e buon gusto. Accoppiata rara. Per gli amanti della satira classica.