Non era nemmeno una tentazione. E’ stato un gesto spontaneo: ho preso il telecomando e clic. La partita era iniziata da dieci minuti, nonostante si fosse svolta trentadue anni fa. Non ho nemmeno dovuto far finta di sorprendermi quando quel disgraziato di Cabrini ha sbagliato il rigore: mi sono incazzato e basta. Ho invidiato l’aplomb di Nando Martellini che non aveva l’invadenza presuntuosa di Canessa e ho imprecato per ogni fallo su Oriali.
Italia-Germania, finale dei Mondiali, anno 1982.
L’ho rivista l’altra sera su La7, come qualche migliaio di italiani. E come tutti – ne sono certo – mi sono ritrovato con la stessa pulsione agonistica di allora, in un cortocircuito temporale che non mi ha né stupito né allarmato (l’età avanza per tutti).
Quando il rito si è consumato per intero, cioè allo storico “campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!”, mi è stato chiaro il sortilegio di cui tutti noi eravamo stati vittime. La partita era un catalizzatore di energie positive, un mezzo di trasporto verso un non-luogo in cui non solo eravamo giovani ma persino eterni. E non è il normale meccanismo dei ricordi, che magari danno nostalgia o provocano rimpianti, no: è una garanzia di felicità perenne.
In quella partita i morti – da Scirea a Bearzot a Pertini – saranno vivi finche ne resterà memoria catodica e la nostra ordinarietà di sopravvissuti sarà nascosta dalla vittoria epica.
Io me lo ricordo bene.
Non è stata la testa di Paolo Rossi a mettere il pallone dentro la porta dell’odiato Schumacher, ma la mia.
Non è stato di Tardelli l’urlo simbolo di un’Italia indomabile, ma il mio.
Non è stato il gol di Altobelli a far scattare in piedi l’incontenibile presidente Pertini (“Non ci prendono più!”), ma il mio.
Così è stato. Così sarà per sempre.