Una delle cose più irritanti nel mondo dorato dei commentatori opachi da social network è l’approssimazione con la quale si vogliono spacciare per universali concetti piccoli piccoli. Leggendo il commento di Mario Adinolfi che, in soldoni, deve far passare il ragionamento secondo il quale è giusto che non ce ne freghi un tubo della morte di Lou Reed se nello stesso giorno è venuto a mancare Luigi Magni, mi viene spontaneo riproporre il concetto della relatività delle notizie (concetto che chi ha fatto il giornalista dovrebbe sempre aver chiaro): l’importanza di un fatto che deve finire sui giornali non è assoluto.
Esempio: la morte del Papa. Chi può mai immaginare una prima pagina in cui questo titolo non sia unico e dominante? Però, prendete il caso che nel giorno in cui se ne va un Pontefice, un disgraziato leader di un disgraziato Stato decida di sganciare una bomba atomica su una disgraziata città del nostro Paese. Tutto cambierebbe. Chiaro?
Tornando a Reed e Magni nell’ottica di Adinolfi, quest’abitudine di mandare in vacca ciò che è popolare è, per quanto mi riguarda, abominevole. E’ una puzza che apparentemente sta sotto il naso di chi si deve a tutti i costi inventare un ruolo di bastian contrario, e invece sta ben lontana: in un retaggio culturale che fa di questo Paese un arcipelago di isole senza traghetto, di principini senza regno, di affabulatori che godono a rotolarsi nel facile consenso.
La morte di Magni, nonostante quel che Adinolfi possa argomentare, non è stata sottovalutata. E’ stata pesata per quel che pesa, giornalisticamente parlando. Conosco almeno un centinaio di persone che sanno di chi era Lou Reed e sanno poco di Magni. E’ colpa loro? Devono lavarsi la coscienza per questa mancanza? Per Adinolfi sarebbero degli sfigati. Per fortuna non è così.