La cosa più difficile nel raccontare le emozioni di un film o, in questo caso, di una serie tv è rendere compatibili le esigenze di chiarezza, ergo dire senza criptare, con quelle di chi non vuol ancora sapere come va a finire, ergo evitare lo spoiler.
Ci provo.
Ho visto “La casa di carta”, serie spagnola distribuita su Netflix, e l’ho trovata soave e poetica nel suo narrare un meccanismo romanzesco antico come le rapine e i destini dei rapinatori. Perché è vero che nei casi di crimine cinematografico si fa quasi sempre il tifo per i banditi, ma è anche vero che l’iconografia del malvivente obbligato a essere tale da un sistema ingiusto può andar bene per sbarbatelli e negazionisti, non certo per noi vecchie ciabatte dell’avventura di piccolo e grande schermo.
“La casa di carta” è un gioiellino di narrazione, recitazione e regia che scardina il tempo di una rapina e lo dilata a favore di una nostra emozione, una qualunque, solitamente quella più a portata di mano. Così, a seconda delle predisposizioni, si può rimanere ammaliati dallo spirito di rivalsa contro un sistema che strangola i deboli per favorire i ricchi e ritrovarsi a canticchiare “Bella ciao” nell’atto finale dell’epica delinquenziale e/o liberatoria. Oppure ci si può interrogare sugli incroci della vita, sul grande inganno di un Creatore che si diverte a mescolare le carte in una partita in cui alla fine gioca solo lui. Oppure ancora ci si può accoccolare sul cuscino del sentimento e tastarne la consistenza quando le trame d’amore oscurano la ragione e la ragione diventa nulla, come un euro dinanzi a mille milioni, come una vecchia foto inghiottita dal baratro di una nostalgia.
Ecco, “La casa di carta” ha questo pregio. Come tutte le storie perfette, che devono avere il carattere dell’universalità, racconta qualcosa che è spunto, trampolino, idea per lasciarti il tempo di scegliere tra ciò che è e ciò che sarà, tra ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere.