Non c’entra la memoria, il cui culto tardivo e spesso interessato è fonte di maggiori problemi rispetto all’amnesia. Non c’entra nemmeno l’onanismo del futuro, nel cui nome disprezziamo in maniera indecente l’antico e i vecchi. C’entra il presente e una convinzione urgente ma non recente: che i nostri tempi, quelli che stiamo vivendo, siano di fondamentale importanza e che tutto il resto, il vissuto e ciò che verrà, non conti un cazzo.
Si chiama cronocentrismo e lo ha inventato/scoperto 46 anni fa un sociologo americano, Jib Fowles, scrivendone sulla rivista Futures. È un termine attualissimo ma, come detto, non nuovo. Racconta di come crediamo di vivere immersi in tempi stratosfericamente eccezionali quando invece, se mai ci confrontassimo con quello che ci sta alle spalle, potremmo davvero pensare di incidere qualcosa nella granitica massa del tempo che incombe e che, ahimè, ci precede.
Prendete il Coronavirus. Tutti a blaterare, me compreso, di cambiamenti epocali di “mai più” e “d’ora in poi”. Uno dei casi più emblematici è questo: sullo Spiegel si preconizza l’estinzione della notte solo perché i bar e i locali notturni sono stati costretti a chiudere per l’emergenza.
Il cronocentrismo è uno spunto per riflettere, per raccontarci. Per non diffidare di chi porta testimonianze proprie di fatti pubblici (tipica allergia in ambiente social) e incrementare le domande. Per tenere a distanza con la canna l’imbecille che indossa un gilet arancione per accusare l’alba di avergli rubato l’idea. Per parlare di chi c’era prima e di chi ci sarà dopo. Occuparci finalmente dell’altro – in altro luogo, con altro interesse, con altra cultura, in altro tempo e altri tempi – sarà il metodo migliore per cercare di trovare l’unica merce senza scadenza che vale oggi, ieri e domani: risposte, alternative.
Il migliore cibo per una civiltà è stato seminato ieri e verrà raccolto domani, non dimentichiamocelo.