Ho visto ieri lo speciale “Che tempo che fa” con Roberto Saviano. All’opera dello scrittore abbiamo dedicato su queste pagine molto spazio, in passato. E i toni del dibattito sono stati accesi. L’apparizione televisiva di ieri ha però dato una quarta dimensione al personaggio: quella di un ragazzo (non ha ancora 30 anni) che vive della sua emergenza. Il disagio di una vita blindata, e tutto sommato impossibile, traspare infatti in ogni sua parola. E a poco valgono i milioni di copie vendute con Gomorra, le traduzioni in cinquanta Paesi, l’invito all’Accademia dei Nobel, le mobilitazioni di scrittori di tutto il mondo, i soldi e la fama. I racconti accorati dei misfatti di malavitosi e amici dei malavitosi, di una stampa criminale che infanga prima e dopo le pallottole, dell’inaudito consenso riscosso dai clan tra i ragazzi di Casal di Principe, nella voce di Saviano sono lacrime trattenute e rabbia compressa.
Ieri lo scrittore simbolo della resistenza contro il Male ha mostrato le cicatrici per un combattimento su un altro fronte: quello della sua resistenza personale.
C’è mancato poco che non si liberasse in una maledizione del suo romanzo-denuncia. Per fortuna ciò non è avvenuto – almeno in toni espliciti – e tutti noi possiamo auspicare che la solitudine che egli avverte sia quella dei pensatori sofferti, dei simboli controvoglia e contronatura.
Roberto Saviano è uno scrittore e chi vuole farne un Dorian Gray dell’antimafia militante non gli rende un buon servizio. Scriva, racconti e guardi avanti, per quanto difficile la strada può apparire. La sua testimonianza, ieri, mi ha fatto riappacificare per quasi due ore con la televisione.