L’onda degli appelli telematici si scatena a ogni grande evento di cronaca, come uno tsunami che segue tragicamente lo sconquasso di una porzione di crosta terrestre.
Ne parlo con il massimo dell’autocritica. Nel senso che nel recente passato ci sono caduto anch’io, e ciò non vuole rappresentare alcuna attenuante.
Solo che andare appresso a uno sconsiderato che, nonostante il proprio ruolo istituzionale, si lancia con tutta la ruvida maleducazione possibile contro chiunque non la pensi come lui è cosa pericolosa. Quasi quanto il dare luogo a seriali iniziative di protesta che, seppure incanalate, previste, attese, non danno la certezza di successo di pubblico e di critica.
Perché è l’effetto sorpresa delle rivoluzioni pacifiche quello che la storia ha sempre premiato. Perché anziché mandare le foto a Repubblica autocertificandosi come “farabutti” o come “donne offese dal premier” si può scegliere di mandare un messaggio a quelli del Pd (o a un altro ectoplasma di opposizione). Della serie: “Se questo signore mi offende, la colpa è vostra e del vostro ombelichismo perdente” (ombelichismo è un bel rischio, per i sinonimi fate voi). Oppure si può scrivere direttamente a Palazzo Chigi, Piazza Colonna 370, 00187 Roma, o a redazione.web@governo.it.
Oppure, per i più pazienti, si può prendere un appunto per le prossime elezioni.
Il lanciarsi a spada tratta in campagne anonime e populiste (ripeto: io ammetto di averlo fatto) non deve illudere: queste adunate virtuali non servono a nulla se non a darci l’illusione che la coscienza si possa lavare col Vetril.
Quando si tratta di firme, persone fisiche, dati certi, le uniche cose che contano sono una carta d’identità e l’uso che se ne fa.
Se poi per sentirsi meglio ci si trastulla con le manifestazioni esibizionistiche allora è segno che quando l’onda è alta c’è chi si riduce a pensare che l’unico modo di sfuggire allo tsunami sia quello di svuotare il mare con paletta e secchiello.