Il boss che mi comanda

Ho sempre immaginato il mio corpo come una specie di azienda che produce non so cosa: probabilmente vita, la mia. Sono nato negli anni sessanta quindi si tratta di un sistema organizzativo e industriale non moderno. Tutto è governato da una centrale operativa che si trova nel mio cervello e che lavora agli ordini di un grande capo, un tizio oltre la sessantina, abbastanza sovrappeso, calvo, sempre in maniche di camicia (sudata). È lui è la chiave di tutto. Lo conosco bene e quel che so della sua vita privata è sempre de relato. Sulla scrivania, tra pratiche inevase e portacenere stracolmi di cicche, c’è una foto della sua signora che per quanto mi riguarda potrebbe essere tipo la moglie del Tenente Colombo: se ne parla sempre, la si vede mai. Si dice che il capo abbia anche un figlio, o addirittura due, ma il confine tra realtà e leggenda è labilissimo quando si parla di un uomo che lavora 24 ore al giorno, senza ferie e che tende a una prevalenza di aroma ascellare già alle prime ore del mattino. Insomma se un figlio c’è, potrebbe averlo fatto per delega (con rispetto per la signora Colombo).

Al lavoro il grande capo è inflessibile, grida spesso e dal suo ufficio tiene sotto controllo tramite un vecchio interfono tutti i reparti produttivi (e anche quelli improduttivi).

C’è il settore “Sport e avventura” che ha subito un ridimensionamento: gli addetti al running e all’arrampicata sono andati in prepensionamento, resistono solo un paio di lavoratori part-time che gestiscono il minimo ordinario senza grande impegno. Di tanto in tanto il capo chiede uno sforzo, ma l’ufficio è ormai in smobilitazione e i programmi sono quasi totalmente nelle mani del reparto “Determinazione, cause perse e affini”. Questo è un settore cruciale dell’azienda giacché è quello che in ordine gerarchico gestisce la programmazione della quasi totalità del lavoro. L’organico di sei persone è stato recentemente rinforzato dall’arrivo di una giovane specializzata in “Motivazione forzosa” che fissa nuovi obiettivi, spesso alzando un po’ troppo l’asticella e provocando le ire del capo: “Ma me lo vuoi ammazzare?”, ha urlato un giorno quando – ultracinquantenne – mi sono ritrovato a correre per 14 chilometri con 35 gradi all’ombra. Lei però tira avanti e confida nella sua arma segreta: una liaison clandestina col responsabile del settore “Autostima”. Costui è, diciamolo, un uomo poco attraente, un secchione che ha fatto il suo tempo nell’azienda senza mai imbastire una ambizione o sprecarsi più del dovuto. Sino a qualche tempo fa mi chiedevo come cazzo era finito lì – lo avrei visto più al reparto “Studio e sopravvivenza scolastica” – poi però, dopo l’arrivo della signorina con conseguente colpo di coda sessuale, mi sono convinto che deve avere almeno una dote nascosta. E spero che in qualche modo io ne possa godere di riflesso.

Nella mia centrale operativa c’è una battaglia che il capo conduce da più di mezzo secolo, quella per la riorganizzazione del settore “Sensi di colpa”. Inutilmente ha cercato di limitarne i terreni di azione. Ha ridotto l’organico a due impiegati, ha abolito i turni di notte delegando al reparto “Sogni e pensieri trasversali” la gestione della gran parte delle operazioni di sopravvivenza notturna, ha tolto loro le chiavi di accesso al sistema operativo degli “Affari sessuali”, ma niente. Non riesce a liberarsi di loro, per via di un’ostinata resistenza dei sindacati che parlano di vessazione e tentativi di demansionamento agitando lo spettro di uno sciopero generale con il conseguente blocco di tutte le attività non vitali (tra queste, purtroppo, anche quella del settore “peccati di gola e peccati in generale”). Nel timore, fondato, che gli uffici dei “Sensi di colpa” siano oggetto di incursioni da parte di sconosciuti o comunque di persone non autorizzate, il grande capo recentemente ha fatto mettere dei catenacci alla porta di cui solo lui ha la chiave.

Non so quanto in lui ci sia di dedizione alla comune causa della mia vita e quanto di pura cura del tornaconto personale – in fondo se io muoio, lui resta disoccupato – però di una cosa sono certo e gli sono grato. Il suo impegno quotidiano per portare avanti la baracca mi ha insegnato che esistono vittorie assolutamente inutili e sconfitte meravigliosamente feconde.