Stupro di una manager

Il caso dell’allineamento Rai-Mediaset mi fa sorridere. Questo inciucio mediatico sta entrando nel (lungo) elenco delle vergogne italiane. Eppure, a pensarci bene, questa vicenda avrebbe i numeri per rimanere nel girone delle chiacchiere da bar. Il capro espiatorio, la manager Deborah Bergamini, è una bella donna in carriera definita persino dai suoi detrattori come giornalista brillante, come persona precisa, colta, capace, disciplinata, minuziosa, illuminata (Antonello Caporale su Repubblica). Pochi vi hanno detto che gli accordi tra i grandi giornali ci sono da decenni, e riguardano le notizie come le strategie pubblicitarie. I direttori di testata si consultano, in occasione di grandi eventi e non. Il peso di certe campagne viene verificato su varie bilance.
Non sono gli accordi di intelligence tra Rai e Mediaset a rovinare la vita degli italiani, ma i trust delle compagnie di assicurazione, i cartelli dei petrolieri, le posizioni violentemente dominanti di certe compagnie telefoniche (che non si occupano solo di cellulari e interurbane). C’è un Italia sotterranea che forgia misteri nel buio dell’impunità. Non sarà lo stupro professionale in pubblica piazza di una manager che – probabilmente perché bravissima – alimenta più di un’invidia a ridarci la giustizia che ormai ci stiamo stancando di chiedere.

Forse

Forza Italia non si scioglie più. Come accade pericolosamente spesso nelle vicende di Berlusconi, c’è stato un malinteso: il che significa che gli altri, tutti gli altri, hanno male interpretato il verbo del Cavaliere. Il quale, fresco e pettinato, ha trovato ieri la faccia per dichiarare di non aver mai parlato dell’eutanasia di Forza Italia: “Ho detto che forse si sarebbe andati allo scioglimento”.
Sta tutto in questo avverbio, forse, la filosofia del personaggio. E’ nel gioco tra dubbio, esitazione e probabilità, che Silvio Berlusconi ha costruito la sua fortuna imprenditoriale e politica. Il giocatore di poker che punta tutto su una mano fortunata, il vanitoso che cambia vestito a seconda dell’auto che prende, il furbo che confida nella buona fede altrui, lo spregiudicato che rispetta solo le regole che lui stesso ha inventato.
Il nuovo soggetto politico sarà un “partito network”, un “partito holding”. Pochi hanno capito che cosa significhi questo profluvio di inglesismi. Di certo il suo presidente si farà amministratore delegato, governatore dei governatori, pontefice di tutte le chiese, Dio.
Forse.

La giustizia e le regole

Due notizie sulle prime pagine dei giornali di oggi accomunano due giudici molto noti perché “non guardano in faccia a nessuno”. E, di conseguenza, perché le loro “vittime” sono personaggi di grido. Il pm Woodcock si è visto archiviare l’inchiesta su Fabrizio Corona e il presunto ricatto fotografico a Totti. Il gip Forleo si è trovata davanti al giudizio impietoso del pg di Cassazione, secondo il quale l’inchiesta su D’Alema e le scalate bancarie è macchiata da giudizi “abnormi e anticipati”.
Due inchieste molto diverse, quindi, ma con lo stesso retrogusto amaro: per fare rispettare le regole bisogna innanzitutto rispettarle, le regole. Woodcock si è cimentato in un’operazione giuridicamente impossibile, che è quella di mettere le manette alla coglionaggine, alla sciatta presunzione di un signor nessuno che, proprio grazie a lui e ai suoi ceppi, è diventato un simbolo insopportabile. La Forleo, presa da una sacra sete di verità, giustizia politica e protagonismo giudiziario, ha chiesto – tra l’altro – l’autorizzazione alla Camera per utilizzare le intercettazioni di parlamentari che non erano neppure iscritti nel registro degli indagati.
Non sono questioni di lana caprina. In uno Stato di diritto le regole si rispettano, si studiano e, se è il caso, si ripassano.Il rischio è, come ben si può capire, quello di creare vittime che non meritano lo status di vittime; di legittimare, solo perché non ben inquadrati giuridicamente, comportamenti deprecabili di potenti e aspiranti tali. E non ne sentiamo il bisogno, credo.

L’ultimo trasloco

Qualche mese fa vi trasmisi le mie angosce per via dei traslochi. Quest’anno ne ho fatti due in otto mesi, con vari traslochini intermedi. Scrivo da un computer di fortuna annebbiato dalla polvere e con tasti come quello della e accentata che non funziona. Intorno a me, macerie di cartoni e sventolii di nastro da imballaggio. Sono senza porte: dalla cucina e’ (notate l’ausiliare ortograficamente artigianale) un solo panorama che finisce nella stanza da bagno. Ingurgito panini con prosciutto ed emmenthal (colazione, pranzo e cena) da due giorni: ho un fegato che sembra un’asse da stiro. Consumo più libretti d’assegni che carta igienica. Dormo poche ore a notte: persino la sveglia mi tira giù dal letto sbadigliando. Uso le sedie come tavoli, i tavoli come armadi, e gli armadi… non ce li ho. Però sono contento, perche’ spero che questo trasloco sia l’ultimo. Purtroppo di “ultimi” traslochi e’ (!!!) fatta la nostra esistenza: come gli ultimi amori, gli ultimi tram, l’ultimo spettacolo e l’ultima notte. In realtà scegliamo di farci male con qualcosa mascherato da novità. La felicità in fondo è uno dei postumi del combinato dolore-fatica.

Giudica chi legge

Caro Gery, da operatrice del settore editoriale, ti scrivo per ringraziarti del dibattito sulla bastonatissima narrativa palermitana che stai ospitando. Come “allevatrice” di scrittori, sento di dover rendere giustizia, in questo blog, a tutti i talenti freschi che la nostra città ha prodotto in questi ultimi anni, che non liquiderei – come certi soloni fanno – gettandoli nel pentolone degli “scialbi imitatori” di questo o di quell’altro maestro della letteratura o come insulsi produttori di una “narrativucola” che non ha, né avrà mai, nulla da dire. E mi preme anche parlare di chi, con i suoi romanzi, ha contribuito alla crescita della casa editrice per la quale lavoro, Dario Flaccovio. Casa editrice che è spesso oggetto degli strali di chi vive con la puzza sotto il naso. Non mi va che all’editore e ai suoi autori si dia stagionalmente un pubblico calcio nel sedere, spesso senza possibilità di replica né motivazioni espresse con chiarezza. E’ accaduto anche pochi giorni fa, su Repubblica. Cosa che mi ha costretta a scrivere una lettera di precisazione al giornale (di contro molto attento ai nostri saggi su Palermo e sulla Sicilia, ma spesso snob nei confronti della narrativa e dei giovani scrittori che proponiamo). Né sono io l’unica a ritenere ingiusto bollare i nostri scrittori esordienti ed emergenti come robaccia. C’è tanta stampa qualificata che ne parla bene, e in certi casi anche in termini entusiastici. Ci sono premi letterari nazionali che ne hanno riconosciuto il valore. Ci sono paesi europei ed extraeuropei che li hanno amati e voluti in libreria, e adesso si godono i frutti di una scelta lungimirante. Ci sono colossi dell’editoria che li hanno notati e arruolati nella loro squadra. C’è stata la Presidenza del Consiglio dei Ministri che nel 2005 ha assegnato a Dario Flaccovio il premio della Cultura. E tutto questo grazie a te, Gery, a Salvo Toscano, a Valentina Gebbia, a Giacomo Cacciatore e a tutti gli altri.
Con la casa editrice abbiamo lanciato scrittori che sono cresciuti, che ora hanno anche cinque o sei traduzioni all’estero, e contribuiscono a portare oltre confine la nostra narrativa offrendo un’interpretazione nuova e soprattutto attuale di questa terra. Questi esordienti o emergenti hanno regalato a Dario Flaccovio, e anche a me che li seleziono, la soddisfazione di finire ogni anno, spesso con più di un autore e con libri di diverso genere (dal giallo, al noir, dal romanzo ironico alla letteratura di viaggio), nelle semifinali, in finale o sul podio di vari premi. Di poter sfoggiare sulle nostre copertine “strilli” importanti, tratti dalle recensioni del Corriere della Sera o de La Stampa, solo per citare due testate. Mi sembra, quindi, che sia la storia recente a parlare per loro. Questi giovani autori – che non saranno i nuovi Sciascia e Pirandello, né forse vogliono esserlo, ma hanno comunque talento e personalità – non meritano il coro di detrattori che ormai si leva a scadenze fisse, ma non hanno nemmeno bisogno di difensori. Si difendono da sé, con quello che scrivono, con la passione che ci mettono, con i sacrifici che fanno, con i risultati che ottengono. A chi li vuol far passare tutti per merce di scarto chiedo solo di conoscerli, di leggerli. E magari, dopo averli letti, di avere l’umiltà di ammettere che almeno in qualche caso si è sbagliato a dirne male.

Colpevoli di noir

Quando si esprimono opinioni in forza di un ragionamento o di proprie intime convinzioni, si è soliti usare toni pacati non avendo altri scopi verso i propri interlocutori, se non quello di dire ciò che si pensa. I toni trasudanti livore e disprezzo utilizzati dallo scrittore Vincenzo Consolo suggeriscono invece altre chiavi di lettura. Bisognerebbe chiedersi: da cosa nasce l’accanimento di Consolo emigrato a Milano da quarant’anni verso i suoi colleghi siciliani contemporanei? Ad ognuno la propria risposta.
Per quanto mi riguarda, l’avevo già ascoltato quattro anni fa alla Fiera del libro di Torino ed anche allora aveva tirato fuori la solita solfa e un’idea me la sono fatta. Io credo che uno scrittore dovrebbe parlare attraverso i suoi libri, altrimenti diventa qualcos’altro. Personalmente ho letto Consolo, ma lui cosa ha letto di chi critica?
In Sicilia oggi esistono fior di scrittori e di scrittrici, ognuno si esprime col genere che gli è più congeniale. Il noir come ogni altra forma di letteratura ha una sua specificità, e pazienza se a Consolo non piace. Ce ne faremo una ragione, come autori e come lettori di noir. Voglio comunque sottolineare che se anche una sua pupilla come Silvana La Spina ha pubblicato “Uno sbirro femmina” (Mondadori, semifinalista al Premio Scerbanenco, il più importante del genere in Italia), ci saranno delle ragioni. E non credo siano unicamente quelle sbandierate con tanta sicumera e tanto astio da Consolo. Uno scrittore deve avere una visione ampia del mondo che lo circonda. Molti lo hanno capito e i lettori li seguono sia in Italia che all’estero.

Il maestro americano

Ho sempre pensato che scrivere sia un atto di libertà. Un’impellenza che, miracolosamente, coinvolge la sfera dell’intimo e ha ripercussioni su quella del sociale; una pratica adulta che mette in moto l’istinto bambino e il pensiero maturo, che chiama a raccolta le stratificazioni dell’esperienza eppure cede alle lusinghe dell’ignoto, mescolando azzardo e controllo, incoscienza e presa di coscienza. Antinomie che convergono e cooperano nel medesimo atto: la creazione di una storia. Attribuisco quindi all’azione di scrivere la levità del gioco tra fanciulli: senza pretese e tuttavia denso di significati, spesso incurante di scelte preconcette o di regole che non siano quelle interne al gioco stesso, necessarie alla condivisione con quanti più vogliono parteciparvi. Non sono del tutto in buona fede, dicendo questo, lo ammetto. A oggi, mi reputo un discreto ignorante, orfano della lettura di numerosissimi classici in una scuola che ha fatto del proprio meglio per sottrarmi allo studio appassionato della storia, della filosofia, della poesia. Quello che so, spesso l’ho catturato per caso, con lo stesso spirito del gioco: da onnivoro, in strada, nelle sale cinematografiche, dal solco di un disco, da un fraseggio di musica, sui giornali e sui saggi, pescando qua e là, aprendo la Divina Commedia o l’Iliade con gli occhi chiusi e il dito puntato a casaccio, gustando una strofa, una suggestione, sempre con il tremore del contadino che si affida ai segni, ai solchi, al volo delle rondini. Non sto facendo dell’ignoranza un alibi e del disimpegno una bandiera, ma solo una difesa a braccia aperte. Scrivo con quello che ho e, se la giornata gira, quello che ho mi basta a movimentare il gioco. Ho cominciato a pubblicare nel 1994, ed ero più povero e meno cauto di oggi. Avevo finito l’università, e cercavo di esorcizzare un fantasma. Anzi tre. Primo: volevo diventare uno scrittore vero. Secondo: nei dintorni non vedevo il luogo adatto e canonico per l’impresa, ovvero mitici caffè, circoli letterari, un Baudelaire affamato di novità che decidesse di darmi la sospirata patente di “Scrittorevero”. Terzo: speravo di scrivere qui. Qui, in Sicilia. La terra di Pirandello, Lampedusa, Sciascia. Tremavo.
Mi venne in aiuto un americano. Un personaggio che si era più o meno ritrovato ad affrontare fantasmi simili ai miei e forse di tanti altri miei coetanei. L’americano, da ex studente e anonimo insegnante, voleva diventare uno scrittore vero (cioè pubblicato). Ma nei dintorni non vedeva altro che bar, fattorie e scuole metodiste e, peggio ancora, pretendeva di scrivere lì. Lì, in America. La terra di Poe, Faulkner, Hemingway. Lo scenario era: paralisi o tracotanza, insomma. Lo scrittore americano aveva scelto la tracotanza. Scrivere era molto più facile che convincersi se davvero ne valesse la pena, se fosse “lecito” provarci. Era una questione di coraggio, di incoscienza e di motivazione. Era un gioco libero e serio, che non doveva rendere conto a padri fondatori. Questo a qualsiasi latitudine della terra.
Lo scrittore di cui parlo si chiama Stephen King e, al di là di quello che si possa pensare dei suoi libri, della sua “americanitudine” e dei suoi milioni, mi tese una mano invisibile ma concreta. Mi mise in mano le chiavi del regno e i trucchi di un gioco universale. La battuta giusta davanti alle porte chiuse e ai sofisti. Mi svezzò nella lettura di altri autori, più complessi, più vicini all’Europa e persino alla Sicilia. Mi diede un esempio che non è mai arrivato da qui, dalla mia città.
Eppure non ho fatto altro che scrivere di lei, da allora, grazie alla spinta di un maestro lontano, che non conoscerò mai.

Scrittori traditori

C’è un tema che va e viene, con ciclicità ormai quasi stagionale, nel dibattito letterario siciliano e non solo: non esistono più gli scrittori di una volta. Detta così, ricorda una tipica discussione da ascensore: lo stesso rammarico può essere infatti esteso al pane, alle auto, ai programmi televisivi, ai film, alle verdure, agli idraulici e via discorrendo. Di fatto, una certa insoddisfazione permanente in chi è avanti con gli anni è perfettamente in linea con la logica del rimpianto. Anche mio nonno si lamentava dei bei tempi andati e presumo che così facessero suo padre, suo nonno…
Il corto circuito avviene però quando si tende a far legge di opinioni illustri, che pur sempre opinioni sono. Lo scrittore Vincenzo Consolo, nei giorni scorsi, ha sollevato su Repubblica un allarme (che non ha ammesso voci discordi) contro il buio della scena letteraria siciliana. Perché Sciascia e Bufalino sono morti, perché non ci sono più il Romanzo impegnato e la Ricerca della parola, perché i giovani sono troppo giovani, perché l’impegno non è più Impegno. Sotto accusa c’è una generazione eterogenea di narratori che hanno in comune soltanto il luogo di nascita e che per il resto sono – come ha scritto recentemente Santo Piazzese – isole senza traghetto. Questi scrittori sono tra i 30 e i 50 anni, quindi neanche troppo giovani, e percorrono perlopiù le strade del noir o del giallo. Il romanzo “di genere” viene indicato come aggravante: copre la vacuità dei temi, maschera la scrittura storpia, travisa la Storia. Eppure questi scrittori vendono, sono tradotti all’estero e, per paradosso, sono molto più apprezzati quando varcano lo Stretto. A Milano o a Torino vengono infatti trattati meglio che a casa loro. Raccontano storie nient’affatto banali, sperimentano linguaggi, divertono anche. Sono onesti lavoratori, hanno fatto la gavetta, ma devono tenere la testa bassa nella loro terra. Perché gli anziani saggi – che probabilmente non li hanno mai letti – hanno deciso così.
Una domanda: se il figlio è degenere, siamo sicuri che il padre non c’entri nulla?

Aggiornamento, ore 15.40. Data la sorprendente popolarità dell’argomento, mi sembra il caso di aprire un dibattito. Autori, editori e lettori che vogliono esprimere un’opinione con un intervento che non sia un semplice post possono inviare testo (massimo 30 righe) e foto all’indirizzo e-mail: gerypa@alice.it .

Il conto dei Savoia

Tre frasi di Vittorio Emanuele Alberto Carlo Teodoro Umberto Bonifacio Amedeo Damiano Bernardino Gennaro Maria di Savoia (se avesse tanti neuroni quanto i nomi che porta risulterebbe un genio a casa sua).
Nel 1994, quando gli fu chiesto se fosse disposto a giurare fedeltà alla Costituzione repubblicana per tornare in Italia, lui rispose: “No. Non voglio rispondere a questa domanda. È una cazzata!”.
Nel 1997 rifiutò di scusarsi per la firma di un Savoia alle leggi razziali, precisando: “Non mi scuso perché non ero neanche nato. E poi, non sono così terribili (le leggi razziali, ndr)”.
Nel 2006, appena scarcerato, durante una telefonata a un conoscente disse: “Questi giudici sono dei poveretti, degli invidiosi, degli stronzi. Pensa a quei coglioni che ci stanno ascoltando: sono dei morti di fame, non hanno un soldo. Devono stare tutto il giorno ad ascoltare, mentre probabilmente la moglie gli fa le corna”.
Ora Vittorio Emanuele di Savoia, pensionato P2, e suo figlio Emanuele Filiberto, killer grammaticale e sospettato col genitore di attentato alla pubblica intelligenza, chiedono 170 milioni di euro allo Stato italiano per danni morali dovuti alla violazione dei diritti fondamentali dell’uomo stabiliti dalla Convenzione Europea per i 54 anni di esilio.
Segue il messaggio che mi ha spedito ieri la mia amica Mela insieme con la segnalazione di questa notizia: “Accanisciti, ti prego! Sbranali a parole, masticali e, se sono indigesti, vomitali pure! E rutta!”.

Burp!

Troppo vero per essere vero

Fini dà il benservito a Berlusconi o, a seconda dei punti di vista, ricambia. La teatrale separazione tra An e Forza Italia si è consumata ovviamente in diretta tv, come se fossero necessari una specie di bollo catodico, una legittimazione Pal, una colata di ceralacca mediatica. I mass media non raccontano più ciò che accade – questa è la mia sensazione -, ma creano l’evento stesso. Sospetto che a riflettori spenti quei due – come tutti gli altri – si parlino, confabulino, pianifichino, tramino, recitino un copione. Perché altrimenti tutto ciò non avrebbe senso. Berlusconi si inventa un nuovo partito frammentato per far concorrenza al neo partito della frammentazione assoluta che è il Pd. Non concorda nulla con i suoi alleati. Fini e Casini apprendono tutto a cose fatte e parlano di colpo di teatro. Veltroni apre. Berlusconi spalanca. Bossi boccheggia. Troppo vero per essere vero.
Vorrei essere il cellulare di Silvio Berlusconi per sapere, oltre a come si abborda l’ultima starlet di Canale 5, di cosa caspita parlano il cavaliere e i suoi commilitoni politici a telecamere lontane.