Questa foto

Guardate questa foto. Turisti per le strade di New York. Giovani con le loro fidanzate. Una vacanza, uno scatto per ricordo, poi il ritorno a casa, alla vita di ogni giorno.
Shopping in una città straniera, cena al ristorante, dollari, calcoli sul cambio: “Ti ricordi quando c’era la lira? Ma quant’è un dollaro? Alla fine ci abbiamo pure guadagnato?”.
Amici da incontrare negli States. “Frank. Te lo ricordi? Dice che ha una casa bellissima”.
Il giro in limousine, perché New York è un’altra cosa vista dai vetri scuri di una macchina lunga quanto tre Fiat Panda.
La foto ci dice pressappoco questo. Ma c’è dell’altro che sta nascosto tra quei pixel. E’ un messaggio generazionale, una scheda sociologica, o più semplicemente una notizia.
La mafia è cambiata.
Le facce sono qualunque. Le compagnie sono mimetizzate. Anche i sorrisi sono diversi.
Ricordate l’espressione diabolica di una celebre foto di trent’anni fa in cui Totò Riina si fa ritrarre in piazza San Marco coi piccioni sulle mani? O le sequenze rarefatte del matrimonio di Leoluca Bagarella? O la posa enigmatica di Matteo Messina Denaro?
Passato.
Questa è l’immagine della nuova Cosa nostra.
Turisti per le strade di New York. Giovani con le loro fidanzate. Una vacanza, uno scatto per ricordo, poi il ritorno a casa, alla vita di ogni giorno.
Una vita di traffici, delitti, guerra allo Stato.

Discutete del Tetra Pak

Questo non sarà un post molto popolare, perché sono costretto a parlare di me.
Sono un giornalista professionista dal 1989 e da qualche anno cerco di fare lo scrittore e l’autore a tempo pieno. Mestieri difficili: molto sudore, pochi soldi.
Partorire un’idea, farla crescere nel miglior modo possibile, condurla per mano, assicurarle tutti i comfort possibili, sostentarla, consegnarla infine al suo destino maturo è una fatica immensa. La lettura non è uno sport popolare e gli incassi non permettono stravizi.
Quando si parla di narratori si pensa a caste, a consorterie privilegiate che fanno dell’invenzione un mestiere comodo: “Cosa ci vuole a raccontare una storia? Io ne ho decine di bellissime”. Quante volte mi sono sentito ripetere questa frase da amici o pseudo tali.
Ci vuole uno stomaco di ferro per digerire i sorrisini di chi ti giudica senza mai averti letto, mentre tesse le lodi del bestseller del momento, senza ovviamente averlo mai letto.
Ci vuole un etto di fegato in più dell’ordinario per immaginare di catturare ore della vita di un lettore sconosciuto e costringerlo a sorbirsi i tuoi aggettivi.
Ci vuole molta pazienza a vedersi tracciare la via da soloni della politica o da opinionisti dell’ultima ora: il rapporto con la propria città, il contesto sociale, la scuola di pensiero, il genere ibrido, lo stile conservatore o mancino…
Ci vuole un barile di bile per assistere alla lettura distratta di un manoscritto che è ti è costato anni di lavoro.
Ci vuole cuore da condividere anche se si è egoisti, perché una storia non funziona se non rispetta il principio di universalità.
Ci vuole voce per urlare che gli scrittori, tutti, famosi e non, sono esseri vulnerabili pur nel loro egocentrismo: vivono di fantasia, passano notti insonni a inseguire una virgola, cancellano per produrre, producono per illudersi di non essere cancellati come spesso pensano di meritare.
E’ facile buttarla in politica quando si parla di Israele alla Fiera del libro di Torino. E’ facile cedere agli estremismi quando si tratta (come ammoniva Giacomo Cacciatore ieri) di parole e pensieri. Il difficile è fare un passo indietro. E pensare che ogni forma artistica è sofferenza più che godimento, per chi la crea. Le nazioni, le religioni, le alleanze, la lingua sono un mero contenitore.
Ecco, cari polemisti dalla vista corta, discutete del Tetra Pak, ma non boicottate le idee.

L’intolleranza e l’idiozia

Una minoranza contundente che ha l’ardire di definirsi, a cortei sguainati, pacifista ha scatenato negli ultimi giorni un attacco inusitato contro gli organizzatori della Fiera del libro di Torino, il massimo evento letterario nazionale. Motivo? Il posto di ospite d’onore assegnato quest’anno a Israele.
L’argomento ha già suscitato molte autorevoli prese di posizione, da Claudio Magris a Magdi Allam, da Aldo Grasso a Fausto Bertinotti. Ho firmato il documento stilato da Raul Montanari (che riporto in coda a questo post), ma avrei voluto aggiungere alcune righe accanto al mio nome e cognome. Queste.
La tutela delle diversità è l’unico modo che abbiamo per dare un po’ d’acqua al giardino della cultura. La cultura non può avere colore, non si vernicia l’aria che respiriamo. L’intolleranza è la più inaccettabile forma di violenza imposta alle idee. E le idee sono gli unici ponti a prova di bombe intelligenti che uniscono New York a Bagdad, Londra a Kabul, Palermo a Berlino.
Chi vuole boicottare scrittori del rango di Abraham Yehoshua, solo perché non è nato a Liverpool, è un idiota che gode ancora nel farsi sodomizzare da un’ideologia defunta: potenza del rigor mortis.

Israele ospite del Salone del Libro di Torino 2008

Con questa firma esprimiamo una solidarietà senza riserve nei confronti degli organizzatori della Fiera del libro di Torino, nel momento in cui questo evento di prima grandezza della vita letteraria nazionale viene attaccato per aver scelto Israele come paese ospite dell’edizione 2008. L’appello a cui aderiamo s’intende apartitico, e politico solo nell’accezione più alta e radicale del termine. Non intende affatto definire uno schieramento, se non alla luce di poche idee semplici e profondamente vissute. In particolare, l’idea che le opinioni critiche, che chiunque fra noi è libero di avere nei confronti di aspetti specifici della politica dell’attuale amministrazione israeliana, possono tranquillamente, diremmo perfino banalmente!, coesistere con il più grande affetto e riconoscimento per la cultura ebraica e le sue manifestazioni letterarie dentro e fuori Israele. Queste manifestazioni sono da sempre così strettamente intrecciate con la cultura occidentale nel suo insieme, rappresentano una voce talmente indistinguibile da quella di tutti noi, che qualsiasi aggressione nei loro confronti va considerata un atto di cieco e ottuso autolesionismo.

Nelle mani di un pilota arrapato

In questo periodo mi capita spesso di prendere l’aereo. Appena sono a bordo, il primo pensiero (ossessivo compulsivo, come sindrome mi impone) è rivolto ai piloti. Hanno riposato stanotte? A casa tutti bene? Pranzo e cena regolari? Sono abbastanza svegli? E via delirando.
Alle medie avevo un compagno di classe simpatico e pacioccone. Un tipo goffo che però, appena saliva in sella a un vespino, era capace di inventare le acrobazie più incredibili. Lo rividi ai primi degli anni Ottanta. L’occasione fu un reportage sui giovani che sceglievano un mestiere tra le nuvole. Lui era lì, in un piccolo aeroporto “tecnico”, a macinare brevetti su brevetti. Mi invitò a fare un giro su una di quelle trappole a elica che credo rientrino nella categoria degli aeroplani bimotori (non vorrei scrivere una corbelleria). Insomma un velivolo in cui io magro come un grissino torinese e lui sempre più pacioccone entravamo a stento.
Fu un’esperienza lisergica. Una serie di flash dove la terra stava al posto del cielo, il mare girava tutt’intorno, le montagne sparivano e riapparivano dietro la carlinga, il cuore batteva nelle caviglie e i capelli (allora lunghi e soprattutto presenti) penzolavano verso il tetto della cabina.
Non ho più rivisto quell’ex compagno di scuola, ma so che adesso lavora per un’importante compagnia aerea.
Ogni volta che salgo su un aereo sbircio in cabina di pilotaggio per vedere se c’è lui, pronto ad abbracciarlo, cazzeggiare quanto basta e chiedergli se ha riposato, se a casa stanno tutti bene, se ha pranzato e cenato regolarmente, se ha sonno…
Oggi ho visto questo filmato messo online dal Sun e ho rimpianto l’esperienza lisergica di cui sopra. Almeno il mio amico non staccava le mani dai comandi e soprattutto non pretendeva di girare filmetti spinti mentre cabrava verso un mare travestito da cielo.

Non è un paese per giovani

Se ne accorgeranno in molti: ho preso a prestito e storpiato il titolo di un recente romanzo di Cormac McCarthy che non ho ancora letto ma che leggerò. Innanzitutto per espiare le colpe dell’indebita modifica (sulla copertina del vero romanzo si legge “vecchi” al posto di “giovani”); in secondo luogo perché ci sono titoli che, come questo, quasi ti costringono a rapire un libro dalla polvere dello scaffale. Infine, m’interessava l’alchimia delle parole: un fenomeno che non finisce mai di stupirmi. Lasciate “vecchi” in coda alla frase “non è un paese per” e, per quel pochissimo che so degli Stati Uniti, avrete una spietata sintesi dell’America attuale. Metteteci “giovani” e la frase si trasforma in un pensierino sull’Italia d’oggi e di ieri. Sono stato (e mi illudo di essere ancora, finché le candeline sulla torta non mi sveglieranno bruciandomi una manica) un giovane con la vocazione per la scrittura. Lascio perdere il lato lacrimevole della storia, che credo di aver già raccontato (non mi capivano, ero un illuso, mi consigliavano di fare i concorsi per aspirante usciere e insegnante sottopagato). Sono passati anni e la vocazione bizzarra, nel nostro paese, continua a non far dormire sonni tranquilli ai genitori (forse un po’ meno dopo l’avvento di Maria De Filippi). L’ambizioso, in mancanza di una definizione più pacificante, resta uno strano soggetto di cui prendersi cura. Ma si noti una significativa differenza: l’ambizioso in età matura è una miccia spenta. Non c’è bisogno di pestargli l’amor proprio dissuadendolo dal prendere un treno che è già passato. Basta una pacca sulla spalla, e si è tranquilli che la scintilla non si riaccenderà più di quanto ha già fatto. L’ambizioso giovane è una carica innescata. Potrebbe esplodere in una nuvola di fumo innocuo, ma anche riservare qualche sorpresa. E allora, mano agli estintori dell’orgoglio, ai sacchi di sabbia che seppelliscono i “vorrei” e i “tenterò di”. Ci si potrebbe mettere una pietra sopra, registrarlo come un retaggio culturale inestinguibile della nostra penisola (l’incubo delle macerie al posto del sogno americano) ma solo se la cosa restasse in famiglia. Invece questo è il paese con la più alta percentuale di ultracinquantenni tra le file della politica che conta. Questo è il paese in cui i ricercatori universitari restano tali fino alla vecchiaia e i docenti già vecchi da anni restano tali fino alla morte e forse anche dopo. Questo è il paese del “si qualifichi”, e dello “a che titolo lei”; del “ si faccia servire da chi ha i capelli bianchi”, e dei “non è fattibile” e “le faremo sapere”. Questo è il paese delle anticamere infinite e dei ghigni paterni. Questo non è un paese per giovani.

Premio sms dell’anno

Sms di un’amica. “Ho 43 pantaloni. Di cui venti neri. Una cinquantina di maglie. Devo aver sofferto molto”.
Premiato come il migliore dell’anno.

Day-after fashion

Ieri notte ho schiacciato con la pantofola sul muro l’ennesima zanzara di questo gennaio. Era in piena attività, tant’è che la chiazza dell’“insetticidio” è grande come una moneta da dieci centesimi. Sul mio balcone germogliano (ora!?) un mango e un avocado di cui avevo sotterrato i semi dopo una scorpacciata tropicale natalizia. E una candela che tengo vicino alla finestra si è liquefatta qualche giorno fa come se fossimo ad agosto. Era (orribilmente, lo ammetto) decorata a chiazze di leopardo. Adesso è zebrata, causa scolature.
Forse aveva ragione Stefano Benni quando nel ’93, in tempi non sospetti, o comunque molto meno sospetti di oggi, scriveva:
“Il nostro futuro è a una drammatica stretta. Ho visto un panda con la mia faccia sulla maglietta”.
E se al cataclisma ambiental-meteorologico-ecomostruoso sopravvivessero solo i politici? Loro sì che sanno come scampare sempre a tutto. Vedremo presto Mastella, Cuffaro, Prodi e Nino Strano con la faccia nostra, sulla maglietta?

(citazione da “Allarme di scienziato”, tratta da “Ballate” di Stefano Benni, Feltrinelli)

Candidature

Ricevo una mail circolare da Fascioemartello per sostenere la candidatura del sindaco di Gela, Rosario Crocetta, alla presidenza della regione siciliana. Per deontologia e per ottocentomila questioni personali non ho mai sostenuto alcun politico: continuerò a viaggiare in questa direzione.
Crocetta è una brava persona, è un coraggioso e mi ispira la simpatia dei folli onesti. E’, in questo senso, un simbolo positivo. Come molti altri ce ne sono in giro. Auspico altre candidature come quella sua. Di gente che magari si attacca al telefono e chiama quelli che non lo conoscono: si presenta, rischia una sonora mandata a fare in culo, e chiede un parere.
Spero in un nuovo governatore che dia più schiaffoni che baci, che frequenti i cinema e le librerie più delle sale convegni, che giri nel web a caccia di idee, che istituzionalizzi il confronto con la sua gente (due domeniche al mese in una piazza a caso di una città a caso), che prenda a calci in culo i piagnoni, che tratti i precari da precari e non da serbatoio di voti, che legga e ascolti quanto più possibile ciò che gli artisti della sua terra inventano, che faccia un resoconto (gli addetti stampa non gli mancano) puntuale a scadenze fisse di ciò che non è stato possibile fare, che festeggi quando è il caso di festeggiare e pianga quando è il caso di piangere.
Tutto qui.

Strano ma vero


Nino Strano, senatore di An, ha vissuto il suo momento di raffinata celebrità la scorsa settimana a Palazzo Madama quando ha urlato al traditore Cusumano il suo dissenso politico. Le argomentazioni scelte erano le seguenti: “Sei una merda”; “Sei una checca squallida”; “Cesso, sei un cesso”.
Nelle interviste del giorno dopo il senatore, tolti i minacciosi occhiali scuri e ripulitasi la bocca dal grasso di mortadella (ingoiata, ovviamente, in Senato al culmine della sua esemplare manifestazione di dissenso), si è affrettato a puntualizzare che del “checca squallida” andava valorizzato il senso dell’aggettivo e che lui adora le donne, il turpiloquio e le contraddizioni: “Con gli uomini mi fermo un attimo prima”, ha dichiarato riferendosi ai suoi gusti sessuali.
La caratura del personaggio – vero titano della politica più nobile – impone almeno quattro domande.
Primo: cosa ci fa in Alleanza Nazionale un caleidoscopio vivente come il senatore Strano?
Secondo: a quanto ammonta il suo cachet artistico?
Terzo: a quale commissariato hanno sporto denuncia i titolari del circo dal quale è fuggito?
Quarto: c’è una ricompensa per chi lo restituisce?

Il breve filmato è di Clarus Bartel

Io, futuro governatore della Sicilia

Caro Gery, cari tutti,
scrivo queste parole mentre fuori non c’è nessuna luce. Ogni notte il nero ha il sopravvento solo per pochi minuti, poi i fari delle auto o una stella più luminosa rompono questo colore così incolore.
Non dormo da quattro giorni perché ho riflettuto e solo stanotte la nebbia si è diradata.
Ho preso una decisione. Lo dico a voi e so di dirlo ad amici: mi candido alla Presidenza della Regione Siciliana.
E non lo faccio, credetemi, perché sono un politico, ma perché, nel momento in cui mi è stato chiesto, ho avuto la netta percezione che potevo, che posso rappresentare il volto della Sicilia.
Non è stato facile neanche pensare a cosa posso fare per questa terra. Io, provinciale peggio di una strada. Io, senza neanche una macchia nella fedina penale, nessun processo, nessun amico. Io che odio baciare se non con la lingua (e nemmeno chiunque).
Ecco, anche da questo può partire il cambiamento. Nel momento in cui ho scelto, subito si sono affollate idee per un programma di Governo che provo a sintetizzare.
Famiglia e giustizia: i temi del confronto politico che hanno assediato lo scenario italiano e siciliano. La famiglia prima di tutto. E’ inutile dire quanto conti la famiglia in questa Regione. Sì, io penso che la famiglia vada tutelata sopra ogni cosa con un’azione seria di spionaggio. Penso ad un’istituzione come i “LO DICO” . Un servizio gratuito a cui tutti si possono rivolgere per ottenere prove concrete del tradimento. Quante spie ci sono in giro disoccupate? Quanta professionalità sprecata, sottopagata che deve limitarsi a spiare senza alcuna funzione sociale? Lo spionaggio dev’essere libero e paDrocinato con fondi di un Assessorato al bene comune.
Sulla legge e ammennicoli vari ho le idee chiare: sto ragionando a una diversa collocazione del Palazzo di Giustizia di Palermo. Perché lasciarlo in centro città? L’ubicazione più ovvia mi sembra Bellolampo. Al posto di quelle colonne così brutte, così fasciste, io creerò un termovalorizzatore dove chiunque entri possa essere valorizzato. Entri spazzatura ed esci con un mestiere. Non importa quale, importa che sarà caldo caldo. Entri giudice? Esci Mastella. Cosa vogliamo di più?
Ma un Presidente vero non può limitare la sua azione al capoluogo. E’ indispensabile una politica fiscale che attui una vera redistribuzione della ricchezza dal basso. Sgravi sul riso per gli arancini, sul grano per la cuccìa, sul sesamo per i panini. E se tutti noi sappiamo quanto incidono le accise sul sesamo, ancor di più conosciamo il costo della ricotta. La liberalizzazione della ricotta è il punto da cui partire: una ricotta libera per tutti.
Sempre nell’ambito di vera politica economica dico con forza: “Aboliamo i bilanci delle aziende”. A che servono questi numeri incolonnati? Quale funzione ha conoscere quanto fattura un’azienda? A chi può mai interessare il costo economico di un’industria? Perché bisogna spiattellare i segreti? Meno bilanci significa non usare pesi e misure. Significa poter pagare il pizzo liberamente e non sopportare più la nascita di associazioni contro questo basilare controllo della liquidità. Le associazioni stanno facendo male alla crescita degli adolescenti siciliani. Ne parlo spesso con i genitori sempre più preoccupati: i giovani hanno ormai il seme della legalità. E stiamo attenti: quando attecchisce nessuno può estirparlo.
Pensiamoci in tempo.
Non posso dimenticarmi dei poveri. Ce ne sono troppo pochi ancora. Utilizziamoli, rendiamoli partecipi della vita dei ricchi. Creiamo un centro di stoccaggio di organi vitali. Che se ne fa un povero di due reni o di due cornee? Penso ad un ufficio dove chiunque, sulla base di una autocertificazione, possa utilizzare l’organo di una persona meno abbiente. Il tutto in case di cura multifunzionali, dotate di attrezzature all’avanguardia, da fare sorgere ovunque. Le case di cura costose sono il nostro futuro. E gli ospedali pubblici? Bella domanda. La risposta è semplice: trasformiamoli in sale bingo. Del resto che cos’è oggi un ospedale se non una lotteria? Legalizziamoli, allora. Restituiamo a queste strutture la loro essenza.
Dobbiamo colmare il gap infrastrutturale che ci ha così tanto penalizzati. Abbiamo un progetto del ponte: utilizziamolo. Pensiamo in grande: dal ponte sullo stretto, passiamo al ponte sul largo. Allunghiamolo. Facciamo in modo che da Messina arrivi a Palermo e prosegua verso Catania. A Mulinello potremo creare un sopra–ponte che favorirà lo snellimento del traffico verso Ragusa e Siracusa. Qui, lo so, lo so, è ovvio…. da Capo Passero all’Africa, che ci vuole? Con una piccola rampa arriviamo in un altro continente. Andiamo in quel Paese. Facciamo in modo che i clandestini arrivino via terra.
Sto già lavorando a un altro progetto serio che riguarda l’immagine della Sicilia. Ho scelto una delle città meno travagliate: Gela. Facciamo di questa cittadina la zona di rappresentanza della Regione. Viene un capo di Stato? Che palle portarlo a Palazzo dei Normanni! Stucchi, arte.. ma non se ne può più! Portiamolo a Gela. Facciamogli respirare un po’ di quell’aria nuova. Gela non va bene? Abbiamo anche Priolo.
A questo punto vi starete chiedendo: come diffondere queste innovazioni? Semplice, attraverso un buon ufficio stampa. Ammettiamolo: è una vergogna che abbia ventitrè giornalisti. Soltanto? Basta svoltare l’angolo – magari passando sul sovra-ponte – e arrivare in Burundi per scoprire che l’ufficio stampa del Presidente è composto da 145 giornalisti seri. Io non dico di arrivare al livello del Burundi, per noi assolutamente impensabile. Ma almeno proviamoci: portiamo il numero di professionisti della carta stampata a 100. Sarebbe un successo. Sarebbe un sogno che ci avvicinerebbe al Burundi a grandi passi.
Sto anche lavorando ad un inno: la colonna sonora di Chocolat. Mi sembra perfetta.
Ecco, vedete, piccoli gesti, nessuna grande pretesa. Questi sono i primi punti di un programma che crescerà. C’è un Presidente in ognuno di noi. Liberiamolo. Votate per Torta: ce n’è per tutti.