Nelle sue preziosissime “Sette brevi lezioni di fisica”, Carlo Rovelli identifica nel capitolo finale due filoni cruciali dell’umanità: inventare racconti e seguire tracce. Nella confusione tra queste due attività umane alberga la diffidenza nei confronti della scienza di una parte del mondo della cultura contemporanea. Perché l’interazione che un sistema fisico ha su un altro non ha niente di mentale o soggettivo, “è solo il vincolo che la fisica determina tra lo stato di qualcosa e lo stato di qualcos’altro”.
Altra cosa è inventare racconti. Lì l’unico atomo che conta è quello da animare, magari dandogli un volto e un mestiere diverso dal suo. Le interazioni diventano rimbalzi elastici o chissà vicoli ciechi. Altre storie, altra storia.
Il disagio di molti di noi, abitanti di un pianeta che si chiama Terra ma che è sempre più evaporato, sta non tanto nel cercare di scoprire nuove tracce da seguire, ma nel proteggere quelle che ci sono dai nuovi barbari della confusione organizzata.
Per dire, se discutiamo di interruttori parliamo di qualcosa che va dal Codice Morse al sistema binario. Il recinto, sterminato, è quello. Metterci dentro il racconto che sostituisce l’inseguimento della traccia è da criminali. L’ignoto ha una quota di soggettività elevatissima, ma non lo si può usare come tappabuchi della nostra cultura. In altre parole non possiamo considerare ciò che non conosciamo come qualcosa che non esiste.
Al contrario la strada di cui nulla sappiamo può essere occasione di esplorazione prudente, di visita guidata, di studio, di sete di fiducia.
Invece non è così in questa era buia come una galleria franata, per giunta.
Eppure serve fiducia. Nelle tracce, nella narrazione, nelle strade della conoscenza che devono scorrere distinte e separate.
Dobbiamo imparare a dividere nell’epoca della connessione, a valorizzare il ragionamento indipendente nel trionfo del mainstream, a guardare all’unico nell’orgia forzata della condivisione.