Sulla fragilità degli scrittori e sul senso della vita o della morte. Raul Montanari ha scritto questo piccolo capolavoro. Che merita di esser tirato fuori dall’evanescenza dei social.
Ieri mattina ho saputo che Stefano Di Marino si è ucciso. Come molti altri scrittori, ha scelto di gettarsi nel vuoto.Per chi non lo conoscesse: era un prodigioso artigiano della narrativa di genere, autore di duecento romanzi; uno di quegli scrittori che negli USA degli anni ’30 si chiamavano pulp, ma da noi la parola ha un altro significato.Non eravamo amici, quindi vi verranno risparmiati ricordi tediosi o foto di noi due teneramente abbracciati e cose simili, che peraltro tendo a non postare nemmeno quando a morire è un amico. Ci eravamo incontrati tre o quattro volte e c’era fra noi molta considerazione e simpatia, tutto qui.Eppure la sua morte mi ha colpito moltissimo. Nessuno è più ingenuo di chi crede che l’esercizio della scrittura generi conoscenza della vita, quindi saggezza. È il contrario: il punto d’arrivo di questa esplorazione dell’umano è spesso la desolazione, lo spettacolo malinconico delle nostre azioni ripetitive, delle nostre piccinerie senza fine, del muro che corre accanto a noi e oltre il quale non vediamo nulla. Lo scrittore non è una persona corazzata contro la vita: se è davvero uno scrittore, è la creatura più indifesa che esista. Uno degli autori amati da Di Marino, Edgar Allan Poe, ha detto che la vertigine non è la paura dell’abisso ma l’attrazione per l’abisso; prima di lui, Platone aveva detto che lo scrittore è una creatura lieve, una creatura alata. Lo scrittore, quando è tale e non un ottuso contatore di copie vendute, è così vicino all’abisso che a volte fa quel passo in più e spicca il volo, per scoprire se le sue ali sono reali o immaginarie come il resto del mondo che ha abitato fino a quel momento. Perfino più immaginario di quelli che lui ha inventato per ospitare i suoi personaggi e le sue storie.