L’articolo pubblicato qualche giorno fa su la Repubblica.
Se andate a leggere una qualunque bacheca virtuale degli appassionati di Pokémon Go o se riuscite a scambiare due parole dal vivo con qualcuno di loro, il verbo che incontrerete più di frequente sarà “socializzare”. Perché si sa con Pokémon Go si incontrano nuove persone, si vedono nuovi posti, si conoscono nuove storie.
Ma è davvero così?
La socializzazione e l’auspicata apertura al mondo degli appassionati di questo nuovo gioco è tutta veicolata da un condensato di tecnologia, che media e diluisce i contatti. Quindi, essendoci di mezzo un filtro, viene da pensare che si tratti di una socializzazione farlocca. Inoltre è da campioni mondiali di ottimismo attribuire a Pokémon Go un ruolo mediaticamente importante per la scoperta di luoghi più o meno storici: la visita di un monumento non si fa solo con gambe e polpastrelli. Avete mai visto questi giocatori in azione? Occhi incollati al cellulare per captare indizi grazie alla realtà aumentata, si muovono su un percorso chiaro solo a loro. E non, ad esempio, agli automobilisti che ogni tanto incolpevolmente li mettono sotto. È una specie di “mosca cieca” collettiva senza bende sugli occhi ma col buio intorno.
In una società che incrementa le relazioni tra gli individui aumentando le distanze fisiche, il Pokémon Go è l’ultimo atto di una finta socialità che come prodotto finale ha un surrogato della solitudine chimica degli anni Settanta, quando si viaggiava da fermi assumendo sostanze micidiali, e che con difetto di catastrofismo potremmo chiamare “onanismo tecnologico”. Solo che allora si fingeva di guardarsi dentro, oggi si finge di guardarsi intorno.
Il vero tema non è il destino degli appassionati di questo gioco che, se riescono a non farsi arrotare o a non cadere nel primo tombino aperto, rischiano tutt’al più di essere presi per scemi mentre cacciano farfalle con uno strumento grande quanto una mano e per giunta senza rete. Il vero tema è capire dove porterà il cammino dei Millennials, cioè degli appartenenti alla cosiddetta Generazione Y, tutti giovani nati tra il 1992 e il 2001 che vivono in un mondo senza confini, esplorato dal divano di casa. Un tempo per smuovere orde di ragazzi alla conquista di una città c’erano due modi: i cortei di contestazione e le cacce al tesoro. Oggi bastano un paio di animaletti virtuali, pure bruttarelli.
Negli anni 90 si facevano considerazioni analoghe sui blog.
Nel su accessivo decennio su facebook.
Ed a seguire twitter, instagram.
Curioso che mai nessuno si sia lamentato della socialità su Badoo