Erano anni che non pensavo all’università. E’ un periodo della mia vita che ho in parte rimosso, forse in piena coscienza, se mai è possibile, e senza troppo rammarico. Della mia iscrizione all’Ateneo di lettere (preceduto da un inutile anno a Giurisprudenza: non avevo la vocazione, e ancora credevo nel binomio università -vocazione), rammento il “prima”. Il complesso universitario di Viale delle Scienze, a Palermo, ricorda vagamente un campus americano. Ci sono praticelli, alberi spinosi, moderne palazzine e distributori automatici di bibite. Fresco di versamento in segreteria, andai a sedermi su una delle panchine e mi vidi percorrere quella meraviglia in una mattina autunnale, sotto una nevicata di foglie rossastre: jeans, scarpe da tennis, felpa grigia e libri sottobraccio. Tormentato ed energico, combattivo e meritevole, come Dustin Hoffmann ne “Il maratoneta”. Riguardo al “dopo”, la mia fantasia virava verso il grottesco: la laurea era un tripudio di toghe e cappelli romboidali, con allegrie e scivoloni degni di Stanlio e Ollio nel vecchio film “Noi siamo le colonne”. Insomma, per me l’università era questo: fatica premiata e goliardia. Prova del fuoco e periodo di formazione. Quel viale conduceva a un mondo pieno di possibilità. Fine del primo tempo.
A volte sono gli stimoli più banali, come sfogliare un quotidiano o sonnecchiare davanti a una trasmissione tv, a darti uno scossone, a risvegliare delusioni sopite o scovare da sotto il tappeto i cocci dei sogni infranti. Qualche sera fa seguivo un’intervista della brava Daria Bignardi all’altrettanto bravo (e simpatico) Beppe Severgnini. Da uomo che ha visto il mondo, Severgnini sottolineava come il clientelismo, il nepotismo e la negazione della meritocrazia che infestano gli atenei italiani (senza eccezioni, assicurava lui, e io ho più di una ragione per credergli) sono fenomeni inconcepibili in qualsiasi altra parte del mondo civilizzato. E ho motivo di credergli anche su questo. Il giorno dopo, leggo di un concorso universitario a Messina per un solo candidato. A vincerlo è stato il figlio di un professore di quello stesso Ateneo. Il prof., intervistato, esibisce fastidio.
Due stimoli. La carezza seguita dallo schiaffo. Così, eccomi a rievocare il periodo dimenticato della mia carriera da studente: il “durante”. Mi sono laureato in lingue e letterature straniere agli inizi degli anni novanta (ero uno studente bravo ma pigro), e ho rischiato una seconda laurea in lettere moderne prima di rendermi conto che non volevo dare questa soddisfazione a me stesso. La mia tesi contava quasi 400 pagine, verteva su un argomento allora impensabile per Palermo (il cinema di Scorsese e la cultura dei siculo-americani) e, immodestamente, dico che era ben scritta, arguta e straordinariamente documentata. Mi toccò un centodieci, mentre la mia media esigeva una lode (assegnata invece a una tesi sui burattini inglesi: argomento allora scontatissimo per “Lingue” a Palermo). Siccome sono un candido, provai a informarmi su come si potesse accedere – legalmente – alla carriera universitaria. Collezionai pacche compassionevoli sulle spalle, mezze parole che dicevano moltissimo, qualche risata. A ridere, invariabilmente, erano quei professori che nell’arco di un anno avevo visto materializzarsi in aula soltanto una o due volte, magari quando i loro assistenti avevano il raffreddore o un lutto in famiglia. Ottenni un breve lavoro part-time fra libri e scaffali in virtù dei trenta sul libretto e del portafoglio mezzo vuoto, spalai tesi muffite in uno scantinato, affrontai l’odio di una bibliotecaria che vedeva in me un inesistente pericolo per la carriera già spianata della figlia, e da quella stessa figlia mi vidi rimpiazzare in graduatoria nella seconda selezione per il part-time. Mi misi a fare lo scrittore: tanto valeva…
Oggi, da viale delle scienze, ci passo solo per andare a comprare le arancine in un bar che le prepara benissimo. E, tra me e me, leggero e un po’ triste per chi mette piede in segreteria, canticchio: “Oooh…Stenlio! Noi siamo le colonne”.