Comincia la corsa ai calendari. Già Eva Henger e Sara Varone hanno fatto pervenire a giornali, tv e siti web le anteprime patinate delle loro (molto interessanti) nudità.
Quello del calendario osé è un rito antico. Ricordo l’officina del mio meccanico – erano tempi di Vespe truccate – con due tette Pirelli appese sulla porta del cesso: mai collocazione fu giudicata più pratica e funzionale. Ricordo due miei amici, i più grandi del gruppo, che negli anni Settanta avevano attrezzato una vecchia cantina come dependance per le loro passioni adolescenziali: arnesi da arte marziale con nomi impronunciabili, fumetti di Lando, calendari di Men e Playboy. Ricordo le copertine dei dischi di Santo & Johnny e di Fausto Papetti che non erano calendari, ma che messe tutte insieme davano la piacevole sensazione dello scorrere delle stagioni: foglie cadenti, costumi ridotti, magliette bagnate.
Erano altri tempi (mi si perdoni il luogo comune) e il “senso del pudore” esisteva per essere violato un centimetro alla volta, con pulsioni centellinate. Il calendario era, ogni volta, la scoperta di una donna (sempre più) scoperta. Chi non aveva officine o cantine lo comprava per tenerlo nascosto. La sua misteriosa magia stava proprio in quell’essenza di oggetto ufficialmente utile e palesemente proibito. Avrebbe dovuto scandire i giorni, invece scandiva le notti.
Ecco, io so chi comprava quei calendari: uno a turno del gruppo dei ragazzini, il lavoratore che faceva un mestiere maschio o l’imperituro segaiolo solitario dei giardinetti.
Non riesco a immaginare chi possa acquistarli oggi.