Sapevo che non c’erano speranze, ma sono andato a votare lo stesso. È un vecchio tic quello di stare dalla parte dei perdenti. Al liceo tifavo per i troiani. Mi piaceva Ettore. Chi soccombe – ritenevo allora e non ho cambiato idea – almeno conserva un barlume di umanità. Niente a che vedere con la spocchia di Achille che vinceva tutte le sfide come la Juventus di Platini. Bella forza: erano entrambi immortali. Dunque sono andato a votare per questo centronistra comatoso che presentava una persona in gamba alle Provinciali, contro un apparato nucleare di preferenze. Mi sono incamminato per la strada verso la «gabina», lunedì mattina. Lo scenario era lo stesso di sempre, come un presepe che rassicura l’animo del suo costruttore ad ogni Natale. C’era il vigile con la camicia sbottonata. C’era il carabiniere che pareva uscito dalle illustrazioni di un Pinocchio minore. C’era l’attivista dell’opposizione, con un ventaglio di sguardi malinconici: i celebri sguardi depresso-comunisti che fanno perdere dieci-venti voti, solo incrociandoli. C’erano gli occhiuti pesci medi della maggioranza, convenuti per proteggere le pinne dei pesci grossi. Il sorriso che sfoggiavano aveva davvero un altro calibro.
Ho attraversato il corridoio di una scuola media. «Però che bella cosa la democrazia», pensavo. E canticchiavo tra me e me una vecchia strofa di Gaber sulle elezioni. Al mio seggio non c’era nessuno. Per la verità: nessuno nemmeno altrove. Noncurante e rammentando l’eroismo ben maggiore di Ettore, figlio di Priamo, sono entrato nella stanza che simboleggiava la mia potestà di cittadino nell’atto di esercitare il sacro e laico diritto di voto. C’era una donna con le lenti a contatto che somministrava segni fragili a una sghemba lavagna. C’era uno scrutatore pettinato come Mal, o forse come Furia cavallo del West. E c’era un vecchietto accoccolato su una sedia, il presidente di tutta la baracca, secondo indicazione dei presenti. E che faceva il signor presidente al cospetto di un rappresentante popolo sovrano? Russava.